«Il Coronavirus ha relegato religione e fede alla sfera privata»
Il sociologo che si è fatto monaco. Gianni Dalpiaz: «Molti contagiati sono morti in una doppia solitudine: senza le persone care vicine ma anche senza l’accompagnamento spirituale che fa parte della nostra tradizione. La dimensione religiosa è stata emarginata»
Bardolino. Il frinire delle cicale, annidate tra gli olivi del Garda, si attenua soltanto al suono della campanella che chiama i monaci all’orazione del mezzogiorno. Dal colle di San Giorgio si domina il lago che sfavilla nel caldo intenso di luglio. La chiesa del monastero attende da anni quei restauri che la burocrazia tiene a freno, benché il denaro occorrente sia stato deciso e stanziato da tempo. Si attende un futuro meno precario, più serio e più solido, ma è inevitabile volgere indietro lo sguardo. Ai mesi del tempo sospeso.
«È stato un ritorno all’antico, alle condizioni di vita che per secoli sono state quelle seguite dai camaldolesi. Isolamento, solitudine, una vita di preghiera. Fino agli anni Settanta del secolo scorso era la vita usuale delle Comunità monastiche: clausura, non si usciva dal monastero, i contatti erano molti radi. Siamo tornati a quella situazione. Da quel punto di vista non è stata una rivoluzione. Invece è cambiato molto sul nuovo stile che avevamo adottato: accoglienza delle persone, momenti di preghiera comuni, apertura verso le comunità confinanti. Tutto questo, in questi mesi, non si è potuto fare».
Da Sociologia al convento
Gianni Dalpiaz (1947), trentino, racconta la “clausura da Coronavirus” vissuta dai suoi monaci, una decina, che vivono nell’eremo di S. Giorgio, il monastero camaldolese nelle terre di Bardolino (Verona), pochi chilometri da Affi, verso il lago di Garda. Laureato in Sociologia a Trento, nel 1973, Gianni Dalpiaz è il priore di questo luogo di pace e di silenzio. Inoltre, è docente di Sociologia e Sociologia della Religione presso lo studio teologico “San Bernardino” e l’Istituto di scienze religiose a Verona. Perché un sociologo brillante, un uomo pieno di fascino, già impiegato della Provincia autonoma di Trento, si è fatto monaco? «Non c’è un motivo particolare. In quegli anni (la fine degli anni Sessanta) capitava di interrogarsi su come si poteva praticare la vita cristiana. Avendo conosciuto la comunità di Bose si è stabilito un legame con l’esperienza monastica. Poi da Bose c’è stato un collegamento con Camaldoli».In famiglia come hanno preso la sua decisione di farsi monaco? «Tra la perplessità e il rispetto. Perplessità perché in quel momento c’era in atto un cambiamento anche dal punto di vista ecclesiale. Rispetto perché i miei di casa hanno sempre rispettato le mie scelte».
Fu anche un momento particolare: dopo il Concilio Vaticano II numerosi preti stavano abbandonando la tonaca. La decisione di un giovane laureato di indossare il saio bianco dei Camaldolesi pareva davvero una scelta bizzarra. No? «In verità i miei sono venuti giù a Camaldoli, hanno fatto amicizia con padre Benedetto. La perplessità è svanita abbastanza presto, insomma». I suoi compagni università come hanno preso questa scelta radicale di vita? «Mah, io frequentavo più che altro la comunità di padre Vit, i gesuiti, per cui l’ambiente era abbastanza sensibile. In verità molti non sapevano nemmeno chi fossero i Camaldolesi, ma una volta date loro le spiegazioni richieste… Sociologia aveva al proprio interno tante anime. C’era un’anima libertaria, un’anima più di sinistra e poi c’era l’anima cattolica. Insomma tieni conto che da Sociologia sono usciti due vescovi. Franco Masserdotti (comboniano, ucciso in Brasile il 17 settembre 2006, travolto da un camion mentre pedalava in bicicletta a Balsas la sua diocesi), Benvenuto Italo Castellani (1943) arcivescovo di Lucca; la suor Enrica Rosanna (salesiana) che è stata la prima donna sottosegretaria nella Curia vaticana a Roma. Quindi Sociologia non ha visto soltanto Curcio o Rostagno».
Nel veronese, i Camaldolesi sono conosciuti come “i frati della Rocca”. Poiché nei dintorni c’erano i cappuccini e i francescani, la popolazione della sponda sinistra del Garda non distingueva tra frati e monaci, fra i Benedettini e i molti rivoli di quella famiglia religiosa.
Si dice che nessuno sappia esattamente quante siano le congregazioni che si ispirano alla “regola” che S. Benedetto da Norcia compilò attorno al 540. In Italia ci sono almeno 211 fra abbazie, priorati, case e collegi che ospitano monaci e suore che hanno fatto loro la regola di vita “ora et labora” ispirata dal “monaco che fece l’Europa e addolcì il Medioevo”, per dirla con lo storico francese Jacques Le Goff.
Il convento sul Garda
Il romitorio di San Giorgio, sul colle omonimo che domina il lago di Garda, fu fondato nel 1663. I terreni, quaranta ettari, furono donati ai monaci da un nobile della zona. Non che fossero terre di pregio, almeno in quel periodo. Tanto bastava però per propiziarsi l’aldilà e trovare uomini pronti a dissodare, diboscare, coltivare. E magari pure a dire un’orazione all’indirizzo del benefattore. Fabbricato secondo la tipologia Camaldolese (casette con cella, locale per studio e meditazione, orto; refettorio comune e chiesa), l’intero complesso impegnò le maestranze per tutto il XVII secolo. La chiesa fu completata nel 1704. Ad aula unica, è affiancata da quattro cappelle dedicate alla Madonna, a S. Romualdo, a S. Benedetto e a S. Antonio del deserto. La soppressione napoleonica di monasteri e conventi (1810) decretò l’abbandono e la rovina. Fino al 1885 il complesso, acquistato da un conte, fu abitato da contadini. Poi tornò a risiedervi una comunità camaldolese che lo aveva riscattato dagli eredi del nobile veronese. Dal 1993 si è formata una comunità di una decina di monaci, parte dei quali provenienti da Torra in Val di Non.
Il Covid e i credenti
Torniamo alla pandemia da coronavirus. Qui non si sono avuti contagi, forse perché nella zona l’infezione è stata limitata. «Nell’immediato ci ha fatto capire la fragilità complessiva. In poche ore siamo passati da uno stile di vita che pareva correre dentro binari di normalità a un’emergenza planetaria. Sul medio periodo ci stiamo interrogando su quanto l’epidemia ha evidenziato: in primo luogo la marginalità del tema religioso». A differenza di altri contagi del passato, la pandemia del 2020 sembra aver relegato il rapporto col sacro alla sfera esclusivamente personale. «In parte sì, ma mi ha impressionato anche la gestione complessiva. Mentre per il contagiato è stata prevista la presenza dell’infermiere e del medico, la dimensione spirituale e religiosa del malato è stata completamente ignorata. Nessuno ha protestato o ne ha avvertito la mancanza. Molti ammalati sono morti non soltanto da soli, senza avere accanto le persone care con le quali avevano condiviso la vita, ma pure senza quell’accompagnamento spirituale che fa pur sempre parte della tradizione. Quindi una doppia solitudine».
Paradossalmente, nei contagi antichi la dimensione religiosa spesso fu preminente su quella sanitaria. «È l’evidenza della secolarizzazione, di quanto è profonda nel sentire e nei comportamenti individuali e collettivi della società italiana. Si tenga conto che il picco dell’infezione si è avuto in comunità come quelle bergamasca e bresciana che nella realtà religiosa italiana sono tra le più vivaci. Nel bergamasco la Chiesa non è marginale, anzi. Bergamo è una realtà che dà ancora numerose vocazioni. Eppure anche qui la dimensione religiosa è stata emarginata».
La religione trascurata
È stato prudente chiudere le chiese, non c’è dubbio. Taluni, gli osservanti delle regole, gli ortodossi del cattolicesimo dei riti, dicono che no, si dovevano tenere aperte. Chi aveva ragione? «Avrei preferito che fosse la comunità cristiana a decidere, autonomamente, di chiudere le chiese, a regolare la partecipazione ai riti religiosi. Perché, diciamolo, preti e credenti non sono bambini». Che cosa cambierà, a suo giudizio, dopo questa emergenza sanitaria? «Dal punto di vista religioso si accentueranno tutte le spinte che erano già in atto. Già la partecipazione alla messa della domenica e la pratica religiosa erano in ribasso. I mesi di chiusura anche delle chiese hanno accentuato una dimensione soggettiva della religiosità. Negli anni passati si era rilevato che una parte di coloro che affermavano di partecipare alla messa della domenica non erano andati in chiesa ma l’avevano seguita in televisione. È una quota destinata a crescere. Così come cresceranno coloro che dicono: se faccio qualcosa di sbagliato, con Dio me la vedo io. Saltando cioè la mediazione ecclesiale e comunitaria. Anche questo individualismo è in atto da tempo». La pandemia ha solo accentuato il fenomeno.