potere poco «rosa»

I cda trentini non vogliono le donne

Ferrari: «Vanno introdotte quote di genere». Cogo: «Siamo arretrati rispetto all’Italia, la diversità rende competitivi»


di Giuliano Lott


TRENTO. Lo “sgarro” alle donne della nuova Giunta camerale, composta solo da uomini, ha rinfocolato le polemiche sulla presenza femminile negli enti pubblici. E mentre Manuela Bottamedi avanza una proposta di legge per garantire una quota obbligatoria di genere, c’è chi si richiama allo stesso principio. L’assessore Sara Ferrari ricorda come sia operativa da tempo una specifica legge regionale che prevede un terzo delle nomine di competenza provinciale da assegnare allle donne, ma ammette: «Non si possono obbligare le associazioni di categoria a rispettare questa proporzione».

La diatriba con la Camera di commercio ha una lunga storia: l’assessore evidenzia come «la Camera di commercio di Trento non abbia mai istituito il Cif, il Comitato per l’imprenditoria femminile, presente in quasi tutte le Camere di commercio in Italia, compresa Bolzano. Due anni fa la sua costituzione è stata richiesta dalla Provincia con uno specifico ordine del giorno. Solo dopo questa sollecitazione è stato istituito il Cif a Trento, salvo non assegnargli alcun finanziamento. In questo modo diventava un organismo inutile. É servita una seconda legge per obbligare la Camera di commercio a prevedere adeguati finanziamenti».

Più in generale, osserva l’assessore, in Trentino la componente femminile «è sottovalorizzata. Basti pensare che solo il 20% delle imprese sul nostro territorio vedono almeno il 50% della proprietà in mano a donne. Noi crediamo che questa presenza femminile rappresenti enormi possibilità di sviluppo per il nostro territorio. Certo, la legge sugli incentivi alle imprese, che quest’anno abbiamo reso di più semplice accesso, favorisce la nascita di imprese femminili e questo percorso darà i propri frutti». Rimane però «la pessima figura fatta dalla Camera di commercio, un segnale negativo che speriamo venga smentito dall’avvio del Cif», conclude Sara Ferrari.

Anche Margherita Cogo se la prende con la Camera di commercio: «Hanno dimostrato di non avere il minimo buonsenso. Credo ci siano margini per un ricorso al Tar, dato che la Giunta camerale è un ente pubblico e deve rispondere alla legge regionale. Ma l’eventuale ricorso deve essere promosso dalle interessate, cioè dalle donne escluse». Le quali finora non hanno però manifestato l’intenzione di intraprendere la via legale per rivendicare i propri diritti.

In realtà le donne sono poche in molti organismi di rappresentanza, per non dire delle imprese private. Prendiamo la Cooperazione Trentina: su dieci membri del cda, le donne sono solo tre (Marina Castaldo, Serenella Cipriani e Paola Dal Sasso). «In molte cooperative di consumo - spiega Margherita Cogo - è ancora l’uomo che va alle assemblee, essendo spesso il titolare della firma per il nucleo famigliare, e lo stesso discorso si può fare per le assemblee delle Casse rurali, composte pressoché per l’intero da uomini. Per citare un esempio, i direttori di filiale donna delle Rurali sono solo due».

Margherita Cogo cita uno studio di Confindustria che data ormai 5 anni fa: «Secondo i dati raccolti, la diversità fa aumentare il Pil. Sono 108 le aziende nazionali che hanno aderito a Valore D, da Eni a Telecom, alla Fiat, che hanno almeno un 30% di donne nei rispettivi cda, e i risultati si sono visti». Si torna a parlare di “quote rosa”? «Lo dimostrano i dati, uno studio che risale al 2009 condotto su circa 9 mila manager e amministratori delegati afferma che dove ci sono le donne l’azienda funziona meglio: portano innovazione, nuove idee, e anche una concezione differente per quello che riguarda l’organizzazione del lavoro. É’ nell’interesse di tutti, non solo delle donne». Non bastano le donne, aggiunge Cogo. «Servono anche giovani: i cda con il giusto mix di uomini, donne e giovani sono più competitive».













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