«Così ho sconfitto l’anoressia a 12 anni»
Il racconto di Tina, ragazza che si è ammalata «perché mi sentivo sbagliata». La rinascita dopo un periodo in comunità
TRENTO. «Mi sentivo sbagliata». Così Tina, residente con la famiglia in un paese del Trentino - che si è ammalata di anoressia intorno ai 12 anni e oggi che ne ha 17 è tornata finalmente a vivere - spiega quella che all’inizio era solo una vaga sensazione e poi, nella sua mente, è diventata una terribile certezza. Sentirsi inadeguati, sentire di non essere all’altezza delle aspettative degli altri è una delle caratteristiche che accomuna chi si ammala di anoressia: soprattutto donne - i casi seguiti in Trentino Alto Adige sono circa mille all’anno - tra i 15 e i 25 anni, età che tende ad abbassarsi.
Una sofferenza profonda non un capriccio - spiegano i medici che seguono questo tipo di pazienti - è quello che porta queste persone ad odiare il cibo: un rifiuto totale che può avere conseguenze letali o comunque pesanti per tutti gli organi.
«Mi sentivo fuori posto, fraintesa, sbagliata, non amata; ora so che un motivo c’era, ero effettivamente diversa, ma allora la mia unica risposta a quel sentire era “Sono sbagliata”. La mia sofferenza all’esterno è passata inosservata, le persone vedevano in me una ragazzina forte, matura, affidabile, una brava studentessa e futura danzatrice. Ed io volevo essere quella grandiosa ragazzina, perché dal mio punto di vista quella mia grandezza era l’unico motivo per cui le persone mi volevano accanto.
Mi mostravo grande mentre non stavo alla grande per niente: dietro le quinte crescevano dolore e solitudine. Ma ad un certo punto hai bisogno di lasciare uscire tutto quanto; io raggiunsi quel punto a dodici anni. Un’amica più grande soffriva di anoressia e cercando di tirare lei fuori dalla trappola ci sono caduta anch’io».
Tina, sveglia e introspettiva, capii dove stava andando e scelse di andare avanti comunque: «Pensavo che la mia vita non valesse tanto da essere salvata. Ma avevo anche bisogno di rendere coerente il mio interno ed il mio esterno: stavo soffrendo e la gente vedeva solo una bella ed energica danzatrice. Avevo bisogno che il mio corpo si accordasse con come mi sentivo, e in fin dei conti tra il fisico e l’emotivo era più semplice cambiare ciò che era tangibile. Ero solita dare il 150% in tutto ciò che facevo, fosse danza, amicizie o scuola, e feci lo stesso nel disturbo alimentare: vai più in là, vai più in fondo, fai di peggio. Era l’inferno».
Questo spiega perché curare pazienti anoressici è un cammino lungo e complesso, fatto di miglioramenti e possibili ricadute. Tina è tra coloro che ce l’hanno fatta, dopo un periodo in una comunità alloggio, alla quale sono poi seguiti la terapia ambulatoriale e gli incontri periodici in Comunità. Tutto questo ormai appartiene al passato.
«È sulla buona strada», commenta soddisfatta Raffaella Vanzetta psicoterapeuta responsabile del Centro per i disturbi del comportamento alimentare Infes di via Talvera a Bolzano. «Ora so - dice la giovane - che questa malattia entra facilmente nella tua stanza, ma non ne esce: potrai mandarla ogni giorno più lontana, ma non buttarla definitivamente fuori dalla porta, farla sparire dalla tua vita. Con le cicatrici dovrai imparare a convivere, e dovrai imparare a vivere combattendone i resti. Questa è la mia battaglia quotidiana: cacciare il pensiero della malattia in un angolo, ogni giorno un po’ più lontano».
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