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Rsa, si aggrava la carenza di personale: «Ora si chiamano anche le suore»

A Villa Sant’Ignazio l’assemblea dei delegati Fenalt delle 41 case di riposo: 17 mila giornate all’anno di rientro forzato da ferie e riposi. «Modo di lavorare non più umano. Non è più un problema di soldi, ma di salute»



TRENTO. “Questo modo di lavorare non è umano, non è giusto. Senza sabati e domeniche, con continui rientri. Ma quale giovane può accettare queste condizioni? Se vado a fare la commessa al supermercato guadagno la stessa cifra. A 50, 60 anni sono stanca.” È lo sfogo di una delle delegate Fenalt delle 41 case di riposo trentine, che hanno partecipato questo pomeriggio (19 settembre) a Villa Sant’Ignazio all’assemblea sindacale indetta per decidere le prossime mosse del sindacato sul tema delle condizioni di lavoro nelle Rsa.

Ospite dell’incontro l’avvocato Luca Zeni, ex assessore provinciale alla sanità,  invitato per fornire un punto di vista legale sulle questioni proposte dagli operatori.

Le lamentele più frequenti riguardano le aggressioni dei pazienti con gravi problemi psichiatrici. Come comportarsi? Come migliorare le condizioni di lavoro per rendere più attrattiva una professione che ha il difficile compito di accompagnare gli anziani nel percorso del fine vita?

Ormai la stanchezza non è solo fisica, ma psicologica: “Oltre ai pazienti

dobbiamo sostenere anche le pressioni dei familiari” racconta un’operatrice.

E poi ci sono i rischi sanitari: “Il problema è che non ci sentiamo adeguatamente tutelati sul piano della sicurezza. Ci sono pazienti con patologie gravi. Quando ci feriscono, in ospedale dobbiamo portare anche le analisi del sangue del paziente. Ci sono casi di malattie infettive importanti”. Roberto Moser, vicesegretario Fenalt, riassume così lo stato d’animo dei suoi delegati e degli oltre mille operatori iscritti al sindacato: “Oggi non è più un problema di soldi, o almeno non solo. Adesso è un problema di salute dei lavoratori”.

La cronica carenza di personale è il problema più serio e quello che costringe le direzioni a imporre continui rientri da ferie e turni di riposo con ritmi che diventano giorno dopo giorno logoranti: sono circa 17.000 all’anno le giornate di rientro. “Lo abbiamo scoperto dalle buste paga, quando siamo venuti a sapere delle somme necessarie a pagarle”, precisa Moser. Ma non mancano anche situazioni che nella loro paradossalità suscitano qualche amaro sorriso fra la platea: “Adesso siamo arrivati al punto – racconta un operatore – che da noi abbiamo in servizio delle suore mandate dal Vaticano. Non sono neppure capaci di prendere i parametri vitali e siamo stati costretti ad affiancarle per mesi sottraendo tempo ai pazienti”. Per non parlare di infermiere straniere che hanno problemi linguistici nel rapportarsi con medici e ospiti.

La frustrazione degli operatori è determinata anche dal mancato riconoscimento di istituti che in altri ambiti sono patrimonio consolidato, come il buono pasto che nelle case di riposo non c’è ancora. «Abbiamo diritto al buono pasto. Solo migliorando le condizioni lavorative possiamo sperare che la nostra professione torni ad essere attrattiva. Porteremo avanti la nostra battaglia”, avverte Moser. Per le case di riposo trentine si prevede un autunno caldo sul fronte sindacale.













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