«In casa di riposo servono protezioni per tutti»
Coronavirus a Lavis. Dei due tamponi fatti all’interno della Rsa uno solo è risultato positivo Da quel momento tutti gli ospiti con sintomi “sospetti” sono stati classificati Covid19 e isolati
Lavis. Quello che si temeva è successo: un piccolo focolaio di coronavirus è divampato all’interno della casa di riposo di Lavis. I casi sono aumentati a vista d’occhio e la situazione è molto preoccupante. Ma non è disperata, né totalmente fuori controllo. Questo perché il personale – almeno quello che non è stato costretto a rimanere a casa, in isolamento volontario, per evitare un peggioramento dei contagi – sta comunque lavorando in prima linea, con un grande spirito di sacrificio. In una battaglia che nessuno si sarebbe mai aspettato di dovere affrontare, solo qualche mese fa.
In realtà, non tutti i casi indicati come positivi sono stati verificati, al momento, con il tampone. Il primo ospite malato è stato trovato all’interno del nucleo Alzheimer, la settimana scorsa. Da quel momento in poi, tutti gli ospiti che hanno sintomi influenzali, più o meno lievi, vengono per sicurezza trattati come se avessero di certo il coronavirus. A partire dall’isolamento: è l’arma che si spera possa essere efficace per bloccare il contagio, fra i vari reparti e le stanze della casa di riposo. Ma non mancano i problemi, come ci spiega il presidente Alberto Giovannini. A partire dalla necessità di avere più dispositivi di protezione individuale da distribuire in tutta la struttura, non solo nei reparti dove si è già verificata la presenza della malattia.
Giovannini, come è iniziata questa emergenza?
Fra mercoledì e giovedì abbiamo avuto i primi casi, sia fra i dipendenti sia fra gli ospiti. Presentavano i classici sintomi influenzali: febbre e tosse. Abbiamo fatto il tampone su un paio di residenti e venerdì abbiamo avuto il risultato: in realtà, solo uno era positivo. Da quel momento è scattato il piano di emergenza a cui eravamo comunque pronti e che è dettato dalle direttive dell’azienda sanitaria. Non ci siamo inventati nulla.
Da cosa siete partiti?
Il primo passo è quello dell’isolamento dei casi positivi, per quanto possibile in una casa di riposo, che non è ovviamente un reparto di malattie infettive di un ospedale. Il problema vero è che noi vorremmo che tutta la casa di riposo fosse considerata come un luogo infetto, perché ci permetterebbe di avere una dotazione maggiore di mascherine e dispositivi di protezione individuale, a disposizione di tutto il personale.
Non è così?
Al momento no. Ci vengono assicurate le protezioni massime solo per il personale che entra in contatto diretto con i malati. Per gli altri, ci stiamo arrangiando, anche guardando autonomamente sul mercato. Ma non è facile. Avevamo ordinato 500 mascherine da un fornitore, ma poi ci ha chiamato dicendo che ce ne poteva consegnare solo 150. È una situazione difficile per tutti, a livello mondiale. E quindi è chiaro che a monte ci debbano essere delle scelte. Ma io sarei la persona più felice al mondo se potessi dare a tutti i dipendenti le mascherine con il filtro massimo, e non solo quelle chirurgiche. Qualcuno ha sostenuto sui social che la colpa è nostra, perché non le abbiamo chieste. Non è così: noi siamo costantemente in contatto con Protezione civile e Azienda sanitaria.
Nel personale c’è preoccupazione?
Sì e io la capisco e la condivido. Anzi, torno a ringraziarli del fatto che ci sono, che si danno da fare, che si assistono gli anziani il più possibile. Purtroppo ci troviamo a gestire una situazione, seguendo le direttive che ci vengono dettate e facendo i conti con quello che abbiamo a disposizione. Finita l’emergenza, probabilmente una riflessione andrà fatta su come avremmo potuto prepararci meglio a quello che è successo.