L'intervista

La dissidente bielorussa Olga Karatch: «Non lasciate solo chi lotta contro la dittatura e la guerra»

La politologa e giornalista, candidata al Nobel per la pace e oppositrice del regime di Lukashenko , ha ricevuto il Premio Langer: «Ho rischiato di perdere mio figlio e la mia vita». La campagna per l’obiezione di coscienza: «Funziona, il numero di ragazzi che rifiutano di arruolarsi è in aumento»


Paolo Tagliente


BOLZANO. Domenica 3 marzo ha ricevuto il «Premio Alexander Langer» per il suo impegno a favore della pace, dei diritti umani e della democrazia. Olga Karatch, politologa, giornalista e attivista bielorussa candidata al premio Nobel per la pace 2024, è stata ospite della redazione dell'Alto Adige dove ha partecipato alla consueta riunione del mattino, insieme al direttore Alberto Faustini e agli altri giornalisti.

Oppositrice del governo di Alexander Lukashenko, Karatch, prima di fuggire a Vilnius, è stata incarcerata e torturata. Considerata «una minaccia per la sicurezza nazionale» - anche per la Lituania, che non le ha concesso l'asilo - Olga non può rientrare in patria, dove rischia la pena di morte.

Viene naturale chiederle qual è il suo rapporto con la paura

Ho paura, certo. Sarebbe stupido negare di averne, in una situazione simile. Ma il peggior momento della mia vita non l'ho vissuto con le persecuzioni del regime, dei servizi segreti del Kgb (si chiama ancora così), il carcere e le torture. Quando mio figlio aveva un mese, il governo ha cercato di portarmelo via. In Bielorussia, infatti, in base al decreto numero 18, le autorità possono togliere i figli a dissidenti, oppositori, giornalisti e attivisti. A quel tempo ero molto attiva nella mia città e, in una settimana, a casa mia si erano presentati ben undici rappresentanti dell'autorità per verificare lo stato di salute di mio figlio. Volevano dimostrare che era malato e avere così una scusa per poterlo sottrarre a me e a mio marito. Siccome il bambino godeva di ottima salute, gli hanno somministrato un medicinale, che lo ha fatto stare male e ne hanno disposto il trasferimento alla clinica pediatrica. Sapevamo cosa avevano fatto ed eravamo sotto choc. Dopo poco, il direttore della struttura sanitaria ci ha chiamati, chiedendoci di portargli i documenti del piccolo. Quando siamo usciti di casa per raggiungere la clinica, però, ci hanno arrestati.

La scusa?

Secondo loro, mio marito era alla guida dell'auto con una patente falsa. Ovviamente non era così, ma hanno arrestato anche me che non guidavo. Ci hanno condannato a 15 giorni di reclusione. Tutto questo per dimostrare che il nostro bambino era rimasto da solo e in pericolo. La comunità ha subito fatto pressioni e siamo stati liberati. Storie come questa sono tutt'altro che rare.

Poi, lei e suo marito avete deciso di lasciare la Bielorussia

Sì, alla fine siamo fuggiti. Ho preso una thermos, dei pannolini, ho messo alcune cose in una piccola borsa e siamo saliti in macchina. Era importante non fare capire che stavamo scappando. Appena avviata l'auto però, sono arrivate due pattuglie della polizia. Una si è messa davanti a noi, l'altra dietro. Ci hanno "scortato" per circa 80 chilometri. Ho temuto ogni secondo che ci facessero accostare. Alla fine, arrivati vicino a Minsk, le due pattuglie si sono fermate e sono tornate indietro. Non volevano fermarci, ma assicurarsi che ce ne andassimo. È stata un'ora terribile. La peggiore della mia vita.

Qual è la situazione in Bielorussia?

Praticamente viviamo in dittatura da 100 anni. Dopo quasi 80 anni di comunismo, i bielorussi non erano pronti alla democrazia e, dopo circa cinque anni, Lukashenko è andato al potere. Era il 1994. La Bielorussia è un Paese profondamente diviso, dove i padri denunciano i figli, le sorelle i fratelli, i vicini di casa gli amici dell'abitazione di fronte. La delazione è la regola: basta un commento o una barzelletta perché il Kgb entri in azione e poi si finisca in carcere. La situazione è peggiore di quella in Ucraina dove il nemico ha un nome: Russia. Nel mio paese il nemico si nasconde ovunque.

Qual è il suo obiettivo primario?

Nella nostra regione c'è una guerra e noi dobbiamo parlare di pace. Noi ci battiamo per i diritti umani, per la libertà di parola e per il diritto all'obiezione di coscienza. Dal febbraio 2022 i ragazzi bielorussi chiamati alle armi sono stati 46 mila e noi siamo convinti che per fermare la guerra occorre impedire che uomini e donne indossino la divisa e vadano a combattere. Con i miei colleghi avevamo persino pensato di rubare le armi dell'esercito di Lukashenko. Abbiamo dato il via alla campagna di obiezione alla guerra "no means no" che sostiene i movimenti nonviolenti e gli obiettori di coscienza (disertori e renitenti alla leva) di Ucraina, Russia e Bielorussia. Le nostre idee incominciano a farsi strada e recentemente il generale responsabile degli arruolamenti è stato rimosso, perché gli arruolati erano stati solo 6mila. Chiediamo all'Europa di creare un corridoio umanitario dal Paese verso Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia.  Operazione che potrebbe facilitare le cose per chi non vuole combattere contro i vicini.

Quale valore ha, per lei, il Premio Langer?

Importantissimo. Perché Langer è una figura di riferimento per chi si batte per il riconoscimento dei diritti umani e perché ha avuto molte idee per la pace. Ed è importantissimo perché mi dà la possibilità di essere qui e di parlare della Bielorussia e dei Paesi balcanici.













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