"ritorno al futuro”

“E se il Covid fosse venuto nel 1999? Avrebbe ucciso molto di più e ci saremmo rifugiati in montagna… ma senza fake news”

Con il professor Roberto Poli, sociologo e specialista in previsione sociale dell’Università di Trento, abbiamo immaginato uno scenario di storia alternativa. Molto inquietante


di Fabio Peterlongo


TRENTO. È l’anno 1999. Ai primi posti nella hit parade italiana c’è “50 Special” dei Lunapop. A New York svettano le Torri Gemelle. Alla Presidenza della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro sta per cedere il passo a Carlo Azeglio Ciampi. Presidente della Provincia è Carlo Andreotti, mentre a Trento il sindaco Lorenzo Dellai sta per lasciare la fascia tricolore ad Alberto Pacher. In televisione ci sono solo sette canali nazionali. Nelle case i computer sono abbastanza diffusi, ma servono a creare fogli excel o poco altro. Internet è agli albori, Google esiste da pochi mesi, non ci sono i social-network e l’unico modo che si ha per comunicare a distanza sono il telefono, il fax e, per qualche smanettone, le email. Non c’è “Zoom” per il telelavoro e la teledidattica. Eppure, disegniamo uno scenario di storia alternativa: l’epidemia da sars-cov-2 colpisce non nel 2020, ma nel 1999. Cosa sarebbe successo? In che modo le tecnologie odierne hanno permesso una maggiore “sopportazione” della crisi sanitaria? Ne abbiamo parlato con il sociologo e specialista in previsione sociale dell’Università di Trento professor Roberto Poli, che ci ha aiutato ad immaginare questa “ucronia”. E il risultato è a dir poco inquietante: se il covid avesse colpito nel 1999, la conta dei lutti sarebbe stata tremendamente maggiore e si sarebbe creata una frattura sociale e generazionale senza precedenti. Eppure, nel 1999, ci saremmo risparmiati tante pericolose fake-news, autentico ostacolo ad una risposta condivisa alla pandemia.

Professor Poli, siamo nel 1999 e il governo guidato da Massimo D’Alema assiste all’esplosione della pandemia da covid. L'esecutivo non può guadagnare tempo ricorrendo alle chiusure totali perché mancano le tecnologie che consentono lavoro e socialità a distanza. Che succede?

Le tecnologie di oggi ci hanno permesso di lavorare e studiare. Teledidattica e telelavoro negli anni Novanta non esistevano. Esistevano al massimo tentativi sperimentali che non passavano attraverso i collegamenti internet, ma quelli satellitari, tecnologie non a disposizione delle persone normali. Per la popolazione l’unico strumento di comunicazione a distanza era il telefono, per altro con chiamate “uno a uno” e non di gruppo. L’idea di fare lezione o riunioni di lavoro in remoto era qualcosa da “Star Trek”.

L’ipotesi dunque è che, pur con le terapie intensive che collassavano, la vita scolastica e lavorativa sarebbe andata avanti comunque?

L'unica certezza è che la pandemia avrebbe avuto un costo in termini di vite umane gigantesco, chissà, dieci volte più grande dei 140mila morti che abbiamo contato in Italia, che già non sono pochi. A scuola, in mancanza di teledidattica, ci sarebbero stati focolai molto intensi e sarebbero state le famiglie molto probabilmente a non mandare i figli a scuola.

Quale sarebbe stata la reazione delle persone?

Rispetto alle epidemie del passato ci sarebbe stata una grande differenza. Le antiche pandemie erano inspiegabili, semplicemente capitavano e nessuno ne conosceva l’origine. Noi al contrario avremmo rapidamente scoperto cosa stava succedendo, ma senza poter fare quasi nulla. Immagino forme di panico sociale ancora più estreme, con persone che avrebbero lasciato la società per rifugiarsi “in montagna”, magari in piccole comunità.

La minore facilità dei collegamenti internazionali sarebbe stata un vantaggio?

La globalizzazione ha favorito la diffusione del virus, trasportato dalle persone che viaggiano. Le tecnologie sono state un facilitatore, ma anche un freno della pandemia, grazie alla possibilità che hanno dato di poter ridurre il contatto sociale.

Appunto, chiudendosi in casa. Ma le nostre case sono cambiate poco rispetto a vent’anni fa, fatta eccezione per la presenza della connessione internet. Nel 1999 ci sarebbe stato una diversa gestione degli spazi in cui abitiamo e lavoriamo?

Nel corso della pandemia del 2020 ci siamo accorti che le nostre case sono strutturalmente inadatte a gestire le convivenze forzate imposte dalla pandemia: un unico tavolo in cucina non basta per ospitare i figli che studiano in teledidattica e i genitori che lavorano in telelavoro. Nel passato forse sarebbero stati usati edifici dismessi riconvertiti per fini lavorativi. Ed è quello che avremmo dovuto fare anche nella nostra “linea temporale”, perché il ricorso totalizzante allo “smart-working” è stato tutt’altro che intelligente.

Nel 1999 avremmo assistito ad una risposta meno digitale e più “analogica” alla crisi?

Se una crisi simile fosse avvenuta vent’anni fa, quando le tecnologie informatiche erano rudimentali, forse sarebbe stata la sberla necessaria a farci ripensare come reagiamo alle emergenze, anche negli altri ambiti, come quello della crisi ambientale. Nel 2020 invece abbiamo dovuto fare i conti con l’immenso ritardo tecnologico accumulato nei decenni ed abbiamo dovuto compiere uno sforzo sovrumano per restare in piedi.

Cosa dovremmo aver imparato da questa crisi?

Quello che la pandemia ci insegna è l’assoluta necessità di pensare la società non con lo sguardo puntato a qualche mese o pochi anni, ma alla prossima generazione. L’obiettivo della progettazione politica deve essere il 2040, non il 2025 o il 2030, che ormai sono dietro l’angolo. Inoltre, siamo stati presi completamente alla sprovvista dal punto di vista logistico. Abbiamo scoperto che aver abbandonato l’industria a basso valore aggiunto è stato un errore: insomma, una fabbrica nazionale capace di realizzare mascherine che ci renda autonomi dal mercato è una necessità primaria anche in vista del possibile ripetersi di simili emergenze.

Nel 1999 tutta la comunicazione avrebbe viaggiato attraverso televisioni e giornali e sarebbe mancato il chiacchiericcio disinformato a cui assistiamo, amplificato dai social-network?

Assolutamente, ci sarebbero state meno fake-news ed avrebbero viaggiato con minore facilità. Televisioni, radio e giornali sono strumenti unidirezionali che vanno dal centro verso i loro fruitori e sarebbe stato più facile convincere la popolazione a determinati comportamenti.

Meno fake-news equivalgono a più concordia sociale?

Le fake-news non sono semplici giochini diffusi da persone poco informate, sono create a livello politico ed economico per creare instabilità e perseguono un disegno. Lo ha dimostrato la Brexit, che è avvenuta grazie alla diffusione di notizie false. Oggi sulla pandemia c’è una babele di voci che aumenta la confusione delle persone. È legittimo pensare che due decenni fa la circolazione di queste false informazioni sarebbe stata più contenuta.

Pensiamo ad altri momenti cruciali della storia. Churchill nel 1940 che parla alla nazione preannunciando “lacrime e sangue” contro l’invasore nazista. Risulta difficile immaginarlo circondato da un costante controcanto “social” che lo deride e minimizza o nega l’emergenza.

Non sono uno storico, ma immaginare qualcosa del genere risulta difficile anche a me.













Scuola & Ricerca

In primo piano

la storia

«Fiuto e determinazione, così presi Marco Bergamo» 

Va in pensione Arervo, il poliziotto che il 6 agosto 1992 mise le manette al serial killer dopo una caccia durata tutta la notte. «Nell’83 vidi il corpo di Marcella Casagrande. Certe cose ti segnano per sempre»


Luca Fregona