Personaggi

Cecilia, una meranese a Berkeley fra architettura e street dance

Cecilia Egidi nasce a Hong Kong, poi l'infanzia in Alto Adige. Ora gli Stati Uniti e le “battaglie di danza”


Jimmy Milanese


MERANO. È nata a Hong Kong. Assieme alla sua famiglia a due mesi è ritornata a Merano dove ha passato l'infanzia fino alla maturità scientifica al Gandhi. Poi, una laurea in Architettura al Politecnico di Torino e dallo scorso anno il perfezionamento alla Università della California di Berkeley, anche se la vera passione di Cecilia Egidi è la street dance che pratica da quando era alle scuole Negrelli. «Per me l'infanzia non è stata facile, le mie origini asiatiche hanno pesato a Merano, mentre ora vivo in un ambiente multiculturale dove il mio aspetto orientale non importa a nessuno, e pratico una danza che vorrei trasformare in professione», spiega la ballerina specializzata nello stile popping.

Cecilia Egidi, lei a 24 anni ha già girato il mondo, come mai?

Mio padre è italiano, mamma è di Hong Kong, dove sono nata. Da piccolissima ho vissuto tre anni a Bolzano, poi ci siamo trasferiti a Merano, ho fatto tutta la trafila scolastica fino all'anno del diploma, prima del quale ho passato un anno in Colorado.

Nei suoi social molto seguiti in tutto il mondo lei mostra la sua passione per la street dance. Quando è iniziata?

Fin da piccola mi piaceva ballare, anche se il primo approccio è stato in occasione di un talent show in un doposcuola alle Negrelli, quindi sono arrivate le olimpiadi della danza Hip Hop base. In generale mi piace lo sport. Praticavo pattinaggio artistico, alle elementari sono passata alla ginnastica artistica, all'ultimo anno ho fatto pallavolo e poi nuoto agonistico fino ai primi anni delle superiori. Nel contempo, ho iniziato a fare qualche corso di danza alla scuola Only Dance di Nadia Bozza da dove tutto è partito.

Non ha mai abbandonato gli studi, nemmeno quelli universitari, giusto?

Dopo il mio anno alle superiori in Colorado, mi sono iscritta ad Architettura presso il Politecnico di Torino. Ho scelto quella facoltà perché rappresentava un buon seguito ai miei studi scientifici con un tocco nel mondo dell'arte che mi affascinava. Volevo continuare a danzare e la scena di Torino sarebbe stata perfetta a tale scopo.

E quel suo anno in Colorado?

Durante le superiori avevo sempre continuato a fare corsi di danza, ma il quarto anno di superiori decisi di passarlo in Colorado dove sono stata esposta culturalmente ai generi più disparati di street dance. Uno stile di danza prettamente americano che origina dalla cultura afro-americana. In Colorado ho avuto l'opportunità di esplorare di più questo ambito della danza, oltre a conoscere la cultura americana e, una volta tornata, quello che poteva darmi Merano per me era diventato stretto. Dopo un anno negli States, mi era cresciuta la fame per approfondire questi stili di danza.

Quindi ha preso la maturità, ma come ha fatto con la danza?

Durante il mio quinto anno delle superiori ho continuato a ballare a Trento. Avevo capito che non avrei più dovuto smettere. Ho imparato diversi stili sotto l'ombrello della street dance. Mi hanno chiesto di far parte della compagnia di danza chiamata “Powa Tribe”. Con loro ci focalizzavamo sull'aspetto coreografico e abbiamo partecipato a diverse competizioni in Italia e Spagna e nel 2019 a Italia's Got Talent dove siamo arrivati in finale.

Dopo la maturità si è subito iscritta all'Università?

No, ho preso un anno sabbatico e sono andata a vivere a Los Angeles dove ho imparato la street dance negli stili popping, locking, Chicago hubbard e diversi altri. Avevo 19 anni, decisi di partire da sola ed iscrivermi a un programma del Millenium Dance Complex: uno studio di danza che prepara i ballerini per concerti nell'ambito commerciale. Un ambiente indirizzato verso l'aspetto coreografico, anche se all'interno del loro programma ci sono classi di foundations, ovvero i vari stili base della street dance.

Come ha vissuto quell'anno?

Abitavo in un ostello per ballerini non lontano da Hollywood. Una casa dove alloggiavano sedici persone: due bagni e soli letti a castello. Attraverso un coreografo, fortunatamente, ho conosciuto una ragazza che mi ha proposto di andare a vivere con lei. Così ho fatto amicizia con ballerini al di fuori dell'ambito commerciale; persone che avevano una vita lavorativa e che ballavano a livello professionale. Poi sono arrivate le lezioni con Slim Boogie, un ballerino di livello internazionale. A quel punto ho capito che mi sarei specializzata nel popping. Ho fatto lezioni private anche con Poppin Taco, coreografo di Michael Jackson. Insomma, ho esplorato il vasto e affascinante mondo della street dance.

Partecipava anche alle famose battaglie tra ballerini?

Ogni settimana, in un club che chiamato Tokyo Beat dove ho conosciuto un insegnante di animation originario del Giappone, ma che vive negli Stati Uniti, si praticavano battaglie. Grazie a lui e alla dedizione che pone negli studenti ho iniziato ad esplorare anche il livello della tecnica. Battle negli Stati Uniti e anche a Hong Kong. È un poco il sale di questa disciplina, dove il confronto con gli altri aiuta a crescere e migliorarsi.

Ora, invece, dopo la laurea in Architettura a Torino, da settembre è ritornata a vivere negli Stati Uniti. Come si svolge la sua giornata?

Frequento una classe di 35 studenti nella quale sono l'unica europea: quasi tutti provengono dall'Asia, un mix culturale pazzesco e classi ristrette. Da parte dei professori ci sono più pretese. Il livello è molto alto, ma gli studenti non studiano e basta. Ci sono club e attività extra curricolari. Un ambiente molto diverso dall'Italia. Inoltre, l'università americana prevede degli assignments ogni settimana e due o tre scadenze per progetti che bisogna seguire. Non c'è l'esame finale come in Italia, ma qui studiare è un work in progress che dura tutto l'anno. È stato un anno difficile, mi sono dovuta adattare velocemente ma ho imparato moltissimo, sia a livello di come sopportare lo stress sia nella gestione a livello professionale della mia carriera artistica. Un processo che continua, ora con il mio mentore, Rashaad Hasani.

La street dance è una disciplina che si pratica da soli o in gruppo?

Faccio parte della Izakaya Squad, una crew e gruppo di amici che condividono la passione per il popping. Ci ritroviamo, diamo appuntamenti e parliamo la stessa lingua dell'arte, anche se nel nostro gruppo ci sono persone di diverse estrazioni culturali che però non si giudicano dalla faccia o dal colore della pelle.

Cosa era andato storto con Merano, nella sua infanzia?

Merano è una bellissima città che però ho sempre vissuto in modo stretto, non sentendomi mai parte di alcun gruppo sociale, dato che ho un background particolare, avendo mamma originaria di Hong Kong. A casa parlo cantonese e a scuola ho sperimentato un poco di razzismo per il mio aspetto fisico non propriamente tirolese. In un luogo dove o sei italiana o sei tedesca, non mi sentivo parte di una delle due comunità.

Forse per questo ha scelto la street dance?

Ho deciso di intraprendere questo stile di danza perché permette varietà culturale. Uno stile predominato dal genere maschile, molto forte, che richiede la contrazione muscolare e mi trasmette una sorta di empowerment, oltre al fatto che è uno stile di danza nato nei club e che quindi porta con sé un aspetto sociale importante.

Come descriverebbe quello che le ha dato la street dance?

Attraverso il movimento e la musica parlo la mia lingua, praticando una danza assieme a degli amici che mi fanno sentire qualcosa di più grande. Uno stile che proviene dalla repressione degli afroamericani e rappresenta una sorta di liberazione dalle catene.

E quel suo bagaglio culturale asiatico?

Dietro a una persona c'è più dell'aspetto estetico o della provenienza. Ora apprezzo di più il mio bagaglio culturale asiatico e questa danza mi ha dato una piattaforma per condividerlo. Una danza, come detto, di origine afroamericana che quando impari contribuisci a far crescere, aggiungendo del tuo.













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