Doss Penede, un tesoro di reperti
Gli scavi. La scorsa estate è stato portato alla luce un insediamento riconducibile alla prima età imperiale con un sistema di terrazzamenti raccordati con scalinate monumentali. In questi giorni sono al lavoro gli esperti della Soprintendenza e del Dipartimento di Lettere di Trento
Nago torbole. Un patrimonio prezioso e di grandissimo interesse non solo per esperti e cultori di storia e archeologia, ma anche per turisti e visitatori nonché per i residenti che, quando sarà possibile accedere all'area, avranno sicuramente un motivo in più per visitare Doss Penede. Sono ripartiti gli scavi archeologici sul dosso del maniero naghese, che la scorsa estate hanno portato alla luce un insediamento riconducibile alla prima età imperiale, databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., accertandone peraltro una prima frequentazione già nella seconda Età del ferro. Un sito romano che parrebbe sorto in continuità con quello preesistente, organizzandosi su poderosi terrazzamenti raccordati tra loro mediante un sistema di scalinate monumentali.
La fondazione
«Il sito viene fondato in Età augustea in un luogo che a 360 gradi domina Nago, Loppio e il Basso Sarca, un punto strategico in cui, non a caso, nel 1210 è stato costruito il castello che si vede ancora oggi – racconta Emanuele Vaccaro, docente di Archeologia classica all’Università di Trento, e responsabile del progetto di ricerca triennale avviato lo scorso anno grazie alla sinergia tra la Soprintendenza per i beni culturali della Provincia, il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università trentina e l’amministrazione comunale di Nago-Torbole - il sito aveva funzione civile e forse anche militare: le caratteristiche topografiche e architettoniche indicano un investimento massiccio giunto dall’alto, statale, un’iniziativa ben diversa da quella di una comunità locale, che non sarebbe stata in grado di realizzare un’opera di tale imponenza». Un sistema fitto di terrazzi paralleli, che si sviluppa sopra un preesistente insediamento retico, un villaggio d’altura della seconda Età del Ferro, abitato probabilmente tra il 5° e il 1° secolo a. C., e venuto alla luce pochi giorni fa. «Abbiamo iniziato a scavare i resti di una casa retica ben conservata, sebbene una parte sia stata demolita quando i romani, in Età augustea, costruiscono uno dei terrazzi, presumibilmente con il desiderio di controllare un territorio (l’Alto Garda) che proprio in quegli anni passa sotto il controllo romano – aggiunge - non serve immaginare un passaggio violento che implica distruzione, uccisione o spostamento di popolazione, sembra piuttosto un passaggio pacifico, un’assimilazione delle popolazioni retiche all’interno dell’orbita romana».
L’abbandono
Il sito viene probabilmente abbandonato nel corso del IV secolo d.C. «Una delle ipotesi sulle quali stiamo ragionando è quella di una massiccia frana che ha determinato un’instabilità dell’insediamento, prodotta forse da uno o più eventi sismici, tema su cui lavoreremo nel dettaglio anche grazie al contributo di esperti sismologi – precisa Emanuele Vaccaro - è già certo, comunque, che dopo il suo abbandono il sito non è stato più oggetto di trasformazioni significative, ma che si è fossilizzato a quel momento: ci sono pochissime tracce di interventi post-romani, e sono labilissime quelle di una frequentazione forse occasionale dopo tale periodo. Nel momento in cui è stato costruito il castello tutto questo patrimonio era già completamente interrato».
Sono molti i reperti che stanno vedendo la luce, tra monete, frammenti bronzei e ceramica. «Di recente abbiamo rinvenuto due frammenti di un boccale romano del II secolo dC con un’iscrizione che verrà valutata da un’epigrafista, e dallo scavo della casa retica sono emersi i resti di una tazza databile tra IV e III secolo a.C. – aggiunge – c’è peraltro moltissima fauna, resti di ossa di animali che testimoniano una dieta ricca di carne».
Il patrimonio
Un patrimonio inaspettato. «Nel dicembre del 2018 abbiamo effettuato i primi sopralluoghi, e onestamente mai mi sarei aspettato tutto questo – dichiara – il sito era interamente coperto da vegetazione, e il progetto è stata una scommessa a tutti gli effetti, della Soprintendenza, mia e dell’amministrazione comunale. Ma non è servito troppo tempo per iniziare ad intuire che si potesse trattare di qualcosa di veramente importante e significativo: collocato in un contesto di rara bellezza, il sito ha pochi confronti per complessità e per livello di conservazione».