Addio al bolzanino Giorgio Grai, eccellenza degli enologi italiani
Si è spento ieri, 30 ottobre, all'età di 89 anni
BOLZANO. All'età di 89 anni si è spento Giorgio Grai, un grande bolzanino, capace di segnare la storia italiana del vino.
E' stato infatti uno dei più grandi enologi del nostro Paese, un visionario, capace di immaginare il futuro, fraterno amico di altri mostri sacri del gusto come Luigi Veronelli e Gualtiero Marchesi.
Per ricordarlo, pubblichiamo nuovamente l'articolo di Fabio Zamboni, scritto in occasione degli 85 anni di Giorgio Grai.
Oggi, a 85 anni, scorrazza su e giù per l'Italia con la sua Subaru Legacy 2500 - "è la zia tranquilla della Impreza che ho guidato per anni", precisa - e colleziona 60-70 mila chilometri l'anno e qualche multa per eccesso di velocità ("mi hanno beccato in autostrada a 220 all'ora…") . Ma il bolzanino Giorgio Grai, campione degli enologi italiani, uomo di punta dell'enogastronomia tuttora attivissimo, al volante vanta un passato ben più glorioso di quello di stacanovista dell'autostrada, avendo partecipato ai più importanti rally internazionali con ottimi risultati agonistici. Nella nostra galleria di personaggi noti per svariati motivi professionali ma legati dalla passione per lo sport, il caso di Grai è del tutto anomalo: una sola divorante passione, quella per i rally, e null'altro. Non una squadra di calcio per cui tifare, non una curiosità per altre discipline. Ma quella per il volante è stata passione vera. "Una passione nata un po' tardi, intorno ai trent'anni, del resto prima ero stato troppo occupato con l'albergo di famiglia, il "Roma" di via Marconi, e poi nei migliori ristoranti d'Europa a imparare il mestiere. Del resto sono nato nel mio albergo, camera numero 43, nel 1930". E lo sport che spazio ha avuto nella sua vita? "Lo sport per me è stato soprattutto una sfida con me stesso. A partire dagli anni quaranta quando incominciai a fare qualche gara di sci, a livello studentesco. Un pioniere, quasi, prima sulle nevi del Cansiglio e di Cortina quando studiavo a Conegliano, poi in Val Gardena dove abitai per un paio d'anni durante i bombardamenti su Bolzano". Poi, l'automobile. "Quella passione saltò fuori per merito del mio amico Aldo Tavè, che nel 1964 m'incontrò e mi disse: c'è una gara nuova in Belgio, quattro giorni e quattro notti fino a Sofia e ritorno, 4 mila chilometri. Incontrai poco dopo il gioielliere di piazza Walther Roland Parth, che girava in centro con la sua Porsche, e riuscii a coinvolgerlo. Fu una gara massacrante ma ce la facemmo; guidavo quasi sempre io e lui mi diceva: ma hai preso cocaina? Iniziò così la mia avventura e proseguì subito con il primo Rally di San Martino di Castrozza". Che fu un exploit... "Beh, fu il miglior risultato agonistico della mia carriera. Ero arrrivato lì direttamente dal lunghissimo rally Liegi-Sofia-Liegi, non volevano nemmeno farmi partire e invece arrivai sesto assoluto con una Fiat 1500 di serie e nel libro "Tutti figli del San Martino" scrissero che la mia performance era stata da battimani. Mi aveva preparato la macchina il bolzanino Claudio Manzon". Altri ricordi? "Tanti. Negli anni Sessanta e Settanta partecipai al Rally dei Fiori, al Rally dell'Elba, a quello dei Colli Orientali, al Rally di Sardegna, al Rally d'Italia, al Semperit in Austria, al Montecarlo. Dopo le prime gare il Jolly Club di Milano mi diede una macchina ufficiale della Lancia, diventai "cliente sportivo" e così mi davano assistenza e carburante gratuiti. Corsi per alcune scuderie venete, la San Martino, la San Marco di Venezia, la Palladio di Vicenza. A un certo momento mi offrirono di correre per la Lancia ufficiale, ma rinunciai perché sarebbe diventato un lavoro, che avrebbe sostituito la mia grande passione per l'enologia e la gastronomia". E la mitica Bolzano-Mendola? "Partecipai anche a quella un paio di volte, con una 500 col motore Steyer-Puch, un piccolo mostro che aveva vinto il Rally di Montecarlo. L'avevo alleggerita fino a pesare 430 chili, togliendole anche la retro. L'avevo acquistata da una signora di Bolzano che ci girava in città. Una sera sfidai Cesco Dalla Rosa e da Cardano a Carezza staccai la sua Alfa GT vincendo una storica scommessa con gli amici". Come pilota qual era la sua virtù principale? "Avevo una guida molto spinta eppure molto pulita, scorrevole. Qualcuno mi diceva che mi riconosceva da lontano, dal rumore, più fluido e meno irruento rispetto ad altri piloti . Mi aveva dato consigli preziosi il famoso Lucien Bianchi". Ma si preparava fisicamente per questi massacranti rally? "Facevo sempre molta ginnastica e d'estate nuotavo un sacco. Ma non c'era la preparazione scientifica di oggi". E dove si allenava, alla guida? "Prima di ogni rally andavo in perlustrazione. Si partiva il venerdì, tutta la notte a studiare il percorso assieme al navigatore Hans Botter del Renon e poi nel weekend si correva. Andai avanti così per una dozzina d'anni, poi il lavoro e il matrimonio mi costrinsero a lasciare le competizioni". Qualche aneddoto? "Ricordo ancora con un sorriso l'unico vero incidente, quando al Rally di Novara volai fuori strada. Mi salvai soltanto grazie a un albero che fermò la mia corsa. L'altro ricordo forte è quello dell'incontro con il campione del mondo Sandro Munari. Lo conobbi al Rally di San Martino, in una circostanza curiosa: lui era partito come navigatore di Arnaldo Cavallari e all'angolo della chiesa di Asiago lo trovai fuori della macchina che stava buttando su anche l'anima. Forse decise proprio lì che sarebbe diventato pilota anziché navigatore". Altri incontri preziosi? "Quello con Helmut Eisendle. Mi fece da navigatore prima di diventare campione europeo". Avrà conosciuto chissà quanti protagonisti di altri sport. "Certo. Soprattutto i nostri grandi truffatori. Sono amico di Giorgio Cagnotto e conosco bene Tania, ero amico di Carlo Dibiasi e li ammiro molto".