LA STORIA

Addio a Mariasilvia Spolato, la prima in Italia a dire «io amo una donna» 

Il “coming out” nel 1971, poi il licenziamento dall’università e la vita in strada. Si è spenta in casa di riposo a Bolzano, aveva 83 anni


di Luca Fregona


BOLZANO. Amava leggere, ascoltare musica e fotografare. Mariasilvia Spolato è morta improvvisamente mercoledì 31 ottobre nella sua stanza zeppa di libri a Villa Armonia, la casa di riposo di viale Trento. Aveva 83 anni.

Molti la ricorderanno vagare sui binari e nel parco della Stazione con i borsoni carichi di riviste, appunti e quaderni. O con “Settimana enigmistica” e matita sulle passeggiate del Talvera. O in biblioteca, con la testa riversa sulla scrivania, a dormire profondamente. Sempre intabarrata nella sua giacca a vento rossa e blu, con il cappello di lana calato sulla testa. Estate e inverno.

Era una “barbona” Mariasilvia, una clochard. O meglio: lo è stata per un lungo periodo della sua vita. Perché prima di deragliare, lei era la “professoressa” Mariasilvia Spolato. Laureata 110 e lode in matematica, docente universitaria, autrice alla fine degli anni Sessanta di manuali per gli studenti pubblicati da Fabbri e Zanichelli. E prima ancora, da ragazza, assunta all’Ufficio tecnico della Pirelli. Ma la chiave per capire chi fosse veramente è un'altra: lei padovana trapiantata a Roma, è stata la prima in Italia a fare “coming out”, a dichiarare il suo amore per un altra donna.

Era il 1972. Mariasilvia Spolato, infatti, è una delle pioniere del movimento per i diritti delle persone omosessuali. Insieme ad Angelo Pezzana, nel 1971, fonda la rivista “Fuori”, che poi è diventata la prima organizzazione dichiaratamente gay del nostra Paese. In quell’Italia dove tutto sembrava possibile sul fronte di diritti civili, Mariasilvia è un’attivista instancabile. Scrive per le riviste d’area e soprattutto: fotografa, la sua grande passione. Pubblica “la prima poesia lesbica del neofemminismo italiano”, e un libro che ancora oggi è considerato una bibbia dei diritti civili, «I movimenti omosessuali di liberazione».

 Il poeta Dario Bellezza più avanti la definirà una delle colonne portanti dell’emancipazione di gay e lesbiche. Ma la visibilità ha un prezzo altissimo. L’Italia è indietro oggi. Figuriamoci nel 1972. Mariasilvia ci mette la faccia, lei, insegnante, dichiara la sua omosessualità al mondo. E il mondo la punisce. Rompe i ponti con la famiglia. L’università la caccia. La donna per cui aveva messo in gioco tutto la lascia. La sua vita inizia a sgretolarsi. Qualcosa dentro di lei si spezza. Resta senza soldi e senza casa. Lentamente scivola ai bordi della società.

Come un cane ferito, inizia una vita randagia. Dorme a casa di amici, poi sui treni, nelle stazioni, nei parchi. Raccatta libri e giornali da terra, perché a tutto rinuncia, ma non a leggere. Non si sa perché e percome arriva a Bolzano. Va e viene, sull’onda dei treni che entrano ed escono dalla città. «In quegli anni ho girato mezza Europa - ricorderà - tutti i macchinisti mi conoscevano». Gironzola, si assopisce sulle panchine. Quando è freddo si rintana alla Biblioteca civica. Non si lava, non si cura, non accetta aiuto. In lei si percepisce qualcosa di diverso, ma non te lo racconta. Si chiude negli angoli a leggere e scrivere. Al massimo chiede una sigaretta. Mai denaro. Eppure c’è chi si diverte a picchiarla o a spegnerle una mozzicone sul braccio.

Alla fine degli anni ’90 si ammala, una gamba le va in cancrena. Un’anima pia chiama l’ambulanza, Mariasilvia finisce al San Maurizio. I servizi sociali si prendono cura di lei. Viene affidata a Casa Margaret, la struttura protetta per donne in difficoltà di via Cappuccini. Mariasilvia è stanca della strada. Dice: «Vengo, ma non rinuncio alla mia libertà». Il patto funziona. Passano gli anni, lei invecchia, nel 2012 viene trasferita a Villa Serena. All’inizio non la prende bene. «Che ci faccio qua? Io voglio essere LI–BE–RA!». Si chiude in un muro impenetrabile. Esce la mattina e torna solo la sera a dormire. Passa le sue giornate come sempre: a raccattare libri e giornali, ad ascoltare musica in Biblioteca.

Gli inservienti e gli operatori la coccolano. Se lei ringhia, l’accarezzano. Se sta zitta, continuano a parlarle dolcemente. Lei li ignora, si rifiuta di chiamarli per nome. Vive e mangia chiusa nella sua stanza, che ormai è un deposito di libri accatastati. Ci vogliono tre anni prima che Mariasilvia riesca a tirare fuori la testa dal guscio. Poi, clic, scatta qualcosa. Lentamente. Un passo alla volta. Inizia a ricordarsi i nomi di chi la accudisce, poi scende a pranzare nella sala comune. È lei, coltissima, a scegliere i film che vengono proiettati la sera. Ed è sempre lei a fare le foto a tutti, riportando fuori dalle tenebre, la sua passione più grande. Mariasilvia via via si addolcisce, non parla molto, ma ogni tanto racconta qualcosa della sua prima vita tra una sigaretta e una caramella. Quando la stanza e il suo balconcino strasbordano di libri, li raccoglie e li consegna alle biblioteche. «Perché sono preziosi». Poco importa se li ha raccolti in strada o nelle campane della carta. Se siano unti e lisi.

Gli operatori, la capo piano, la direttrice, capiscono e la aiutano. Dopo tanta sofferenza, Mariasilvia si fa amare. Ha trovato una famiglia. Può congedarsi dalla vita, se non in pace, almeno serena. Ora attende in una cella frigorifera l’addio di chi le ha voluto bene. Ha dei lontani parenti con cui però non aveva rapporti. Probabilmente il funerale sarà a carico del Comune, ma sarebbe bello essere in tanti a salutarla. A dire grazie a chi, per tanto coraggio, ha pagato un prezzo troppo alto.













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