Trento: in vendita la cappella del Simonino, antica sinagoga della città
L'ex sinagoga sul mercato a 1,5 milioni. Niente prelazione della Provincia. E' il luogo di culto dei primi ebrei trentini poi trasformato in cappella adorante il beato che simboleggiava la loro maledizione. Proprio gli ebrei per secoli furono ingiustamente accusati di aver martirizzato il fanciullo
TRENTO. La sinagoga di Trento è in vendita. E, in attesa di un acquirente (privato), sarà destinata a uffici. Tra lavori, allacciamenti, scavi e senza nuovi restauri, ne resterà un pallido ricordo. «La sinagoga? Ma quella non è la cappella del Simonino?» si sorprendono alcuni consiglieri. E qui è l’altro punto doloroso: lì, conficcato dentro palazzo Salvadori in via Manci, c’è il luogo di culto dei primi ebrei trentini poi trasformato in cappella adorante il beato che simboleggiava la loro maledizione. Sì, la Cappella del Simonino. In vendita.
Quel Simonino che rappresentò per secoli una sorta di anticipazione della Shoah e che fece di Trento una delle capitali europee dell'antisemitismo, con la devozione del fanciullo che lo voleva rapito e poi ucciso per motivi rituali dagli ebrei ashkenaziti che vivevano a Trento.
Una storia e un culto del tutto infondati, costruiti su un processo che si basò sulle confessioni dei presunti omicidi ottenute dopo mesi di torture. Nel 1965 il vescovo Alessandro Maria Gottardi, dopo gli studi di monsignor Iginio Rogger sugli atti processuali, soppresse il culto del Simonino. Per la comunità cattolica fu una svolta, ma nelle comunità ebraiche la ferita non è ancora rimarginata.
E proprio in questi giorni la biblioteca di Trento ha acquisito il manoscritto di quel processo, nel quale c'è la prova che scagiona gli ebrei.
Insomma, quel luogo è il concentrato di quasi seicento anni di storia dell'ebraismo e della sua persecuzione a Trento. Ed è in uno stato di semi-abbandono (nonostante il restauro del 1991), nascosto, dimenticato dalle istituzioni e dalla memoria della città. Come se tutto si fosse risolto. Come se ormai, soppresso il culto del Simonino, fosse possibile sbarazzarsi di seicento anni di persecuzione e di solenni processioni in cui si mettevano in mostra le presunte armi dell'omicidio.
«Per la verità abbiamo intavolato delle trattative con gli enti pubblici per la vendita. Se ne è parlato con la Regione, con la Provincia, anche con il Comune di Trento. Ma poi non se ne è fatto nulla: sembra che siano tutti senza denari» ci informano (non senza una punta di ironia) alla Domonet, la società immobiliare che fa capo a Giuseppe Rossi e che è proprietaria della Sinagoga-Cappella del Simonino.
La Domonet ha preparato perfino una brochure per incentivare i privati all'acquisto. «Può essere una straordinaria sede di rappresentanza per qualche società o ente» cercano di lusingare gli agenti immobiliari. Ed è per questo che un lungo profilo sulla storia dell'immobile, ricco di foto che ritraggono alcune opere presenti, fa la sua bella figura sul sito internet della Domonet, alla voce "Proposte immobili di prestigio".
Ma che cosa resta della sinagoga? Di sicuro il matroneo, che dimostra l'impianto del tempio di culto ashkenazita. Ma ci sono numerose altre testimonianze. Nel cortile che si espandeva oltre la ex libreria Paideia, in vicolo dell'Adige (chiamato anche "androna San Simonino", come ricorda in un suo libro Aldo Gorfer), vi era la vasca sacra delle abluzioni, e nel palazzo, proprio dove c'era la sinagoga, viveva il capo di quell'embrione di comunità ebraica (Tobia o Samuele, vi sono al riguardo diverse interpretazioni storiche), che guidava un gruppo sceso da Norimberga: tutti parlavano tedesco, ma la città, all'epoca (XV secolo), era un miscuglio di lingue e di dialetti.
Poi, nel 1475, ecco il caso del Simonino. Su cui non ci soffermiamo a lungo, tranne ricordare che il processo avvenne in un clima fortemente antisemita alimentato dalle predicazioni del francescano Bernardo da Feltre e che vi fu una disputa politica pesante fra il vescovo Giovanni Hinderbach e Papa Sisto IV. Il pontefice sostenne (con un suo legato) che la condanna degli ebrei era infondata e poi tentò di proibire la venerazione del Simonino. Ma il beato aveva già fatto breccia in città e nelle valli e il papa perse il braccio di ferro. Il luogo di culto degli ebrei fu trasformato in una cappella e, successivamente, tutt'attorno vi fu costruito il palazzo (noto ora come Palazzo Salvadori) che servì per dare dimora a cardinali, prelati e altre autorità convenute a Trento per il Concilio. «Guardi - ci fa strada dentro il palazzo l'avvocato Eugenio Pensini, proprietario di una porzione - questa è la facciata della Cappella. Ma è un edificio ricco di storie: non solo tragedie, anche miracoli».
E così ecco scorrere i drammatici anni della seconda guerra mondiale, con il proprietario del palazzo, il barone Salvadori, che nel 1943, proprio lì dentro, proprio a pochi metri dalla cappella, utilizzò una stanza segreta (che ha una sola feritoia che raccoglie luce e aria dal vicolo laterale), per salvare due famiglie di ebrei. Il maggiordomo del barone ogni giorno apriva una botola sovrastante la stanza, vi calava del cibo e, riavvolgendo il filo della carrucola, si faceva consegnare i vasi da notte.
Se non si presentassero a breve nuove offerte, alla Domonet non escludono che la Sinagoga-Cappella possa essere trasformata direttamente in sede e uffici della società stessa. Il valore, attualmente, si aggira su un milione e mezzo di euro. Forse trattabili.
E attorno al monumento torna a concentrarsi l'attenzione.
Anche perché già era in animo, da parte di alcuni studiosi delle religioni, di preparare una mappa dei luoghi dell'ebraismo a Trento: e quella cappella-sinagoga, potrebbe divenirne il fulcro. La Provincia aveva manifestato interesse tre anni fa. Nell'ottobre del 2008 l'allora assessore alla cultura Margherita Cogo aveva affermato che la Provincia avrebbe acquisito la cappella, facendo valere un diritto di prelazione che, invece, non è stato attivato. La Cogo aveva sottolineato che l'interesse nasceva proprio dal bisogno di mantenere la memoria di un luogo simbolo della frattura con la comunità ebraica.
L'assessore nel frattempo è cambiato. Il simbolo è lì che attende.
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