Suicidi, così si rinasce dopo l’abisso
Le storie dei parenti e amici «sopravvissuti»: quel senso di stigma sociale che si vince solo aprendosi al dialogo
TRENTO. «Sopravvissuti al suicidio»: è la definizione che indica le persone che hanno perso una persona cara che si è tolta la vita. Per loro, inizia un calvario fatto di sensi di colpa, rabbia, isolamento e stigmatizzazione sociale. Per riuscire a dare un senso al dolore, l’unica strategia è l’elaborazione del lutto, che può avvenire prendendo parte ai gruppi di auto-mutuo aiuto, in cui condividere l’esperienza del proprio dolore con altri che hanno vissuto una simile perdita. Questi gruppi esistono anche in Trentino e sono organizzati dall’associazione Ama di Trento, che ha attivato il percorso «Il dolore non è per sempre».
È questo il focus della ricerca svolta in Trentino tra 2015 e 2016 da Domenico Tosini, professore associato di Sociologia a Trento, assieme a Deborah Fraccaro, dottore di ricerca in Sociologia a Trento e alla Sorbonne di Parigi: i ricercatori hanno intervistato 25 sopravvissuti al suicidio e preso parte a 47 incontri di auto-mutuo aiuto, individuando alcune fasi ricorrenti nei racconti dei sopravvissuti al suicidio.
La perdita. A caratterizzare il sopravvissuto, è uno stato duraturo di sconvolgimento successivo alla perdita di una persona sentita come importante. Questa perdita è vissuta come un cambiamento biografico catastrofico, con effetti profondamente dolorosi e sentimenti ambivalenti nei confronti dello scomparso. Se il suicidio è avvenuto in maniera inaspettata, come avviene quando il suicida ha nascosto la sua sofferenza, i sopravvissuti si sentono come travolti da un naufragio. Si viene gettati in un vortice di terrore. Il proprio sguardo viene diretto verso l’abisso. Lo stato emotivo è di shock e di incredulità: domina un senso di irrealtà. Nei confronti il defunto convive un senso ambivalente di benevolenza verso la persona cui si è voluto bene e sentimenti di rabbia e tradimento.
L’elaborazione. Alcuni sopravvissuti intraprendono un percorso di elaborazione: diventa necessario accettare l’inconcepibile e porre un limite alla ricerca di spiegazioni, che diventano spesso motivo di ossessione. Si giunge a delineare un nuovo rapporto con il defunto, in cui ai ricordi positivi si affianca la consapevolezza dell’orrore dell’atto. Soprattutto quando ad essere coinvolti sono i genitori, ci si trova di fronte ad un senso di fallimento personale per non essere riusciti a proteggere dal dolore la persona cara: ci si tortura con sensi di colpa e con tentativi di trovare errori nel proprio comportamento personale. Occorre accettare i propri limiti e l’impossibilità di controllare i comportamenti degli altri.
Il rapporto con «gli altri». Nei confronti della società prevale un senso di vergogna, alimentato dalle reazioni negative o di indifferenza da parte di chi circonda il sopravvissuto. È quella che viene definita “stigmatizzazione”. Il rischio è quello dell’auto-isolamento: si alimenta il distacco dai rapporti umani e si tende a giudicare negativamente le reazioni degli altri. Si crea una dicotomia: “noi”, che siamo sopravvissuti, e gli “altri”, a cui la vita ha risparmiato un simile dolore. Per questo, si propone di tornare ad aprirsi alla vita sociale attraverso il volontariato.
Prendere parte ai gruppi di auto-mutuo aiuto può contribuire a ricostruire la propria identità: parlare della propria tragedia permette di rendersi conto che non si è i soli ad aver vissuto una simile esperienza. La partecipazione a questi gruppi di persone che hanno tentato a loro volta il suicidio permette ai sopravvissuti di confrontarsi con chi ha vissuto in prima persona questa disperazione e a chi ha tentato il gesto suicida di confrontarsi con le reazioni delle persone care.