Polizia, è morto Roberto Giacomelli
L’ex capo della squadra mobile di Trento si è spento a soli 47 anni, ucciso da un male incurabile
TRENTO. Ci ha lasciati ieri pomeriggio, dopo una brevissima malattia. Roberto Giacomelli, per ben 12 anni a capo della squadra mobile di Trento, non c’è più. Se ne è andato a 47 anni (era nato nel 1968 a Predazzo) stroncato da un male infido e incurabile. Lascia la moglie Katia e le tre figlie Elisa, Francesca e Chiara. Ha lottato fino all’ultimo, da combattente qual era. Aveva scoperto di essere malato da pochi mesi, ma a tutti quelli che gli chiedevano notizie diceva che avrebbe superato anche questa, che ce l’avrebbe fatta e sarebbe tornato più forte di prima. E invece, questa volta, non è riuscito a mettere le manette a quel male cattivo che si annidava dentro di lui.
E’ morto ieri pomeriggio all’ospedale di Bolzano dove era stato ricoverato. Nel capoluogo altoatesino, Giacomelli era capo di gabinetto in Questura. Aveva avvertito i primi sintomi del male pochi mesi fa e da allora era stato ricoverato più volte all’ospedale San Maurizio. Di recente, il questore di Bolzano Lucio Carluccio era andato a trovarlo insieme al capo della polizia Franco Gabrielli. Roberto era stato molto contento. Gli aveva fatto piacere quella visita importante. Del resto al suo lavoro ci teneva moltissimo. Ci si dedicava anima e corpo, sacrificando vita privata, amici e tempo libero. Diceva che sua moglie era un santa e che faceva anche da padre alle loro tre figlie.
La sua passione era scovare i delinquenti e assicurarli alla giustizia. Era molto amato dai suoi uomini. Con quel suo ciuffo sbarazzino e il sorriso aperto e franco sapeva conquistare la simpatia di tutti. Il questore Carluccio ne ricorda la passione: «Siamo tutti sconvolti perché la sua passione ed il suo entusiasmo nel lavoro non avevano eguali».
La stessa passione con la quale alle conferenze stampa spiegava come i suoi uomini avevano catturato questo o quello spacciatore oppure avevano sgominato una banda di rapinatori. Era un competitivo, un agonista, Roberto. Non gli piaceva arrivare secondo. Un tratto del carattere che forse gli derivava dal suo passato di stopper nelle fila della squadra di calcio del paese, la Dolomitica. Da giovane sembrava scavezzacollo, tanto che quando prese il diploma di ragioniere e il padre Giuseppe, indimenticato sindaco di Predazzo, gli regalò l’auto nuova, lui pensò bene di festeggiare facendosi beccare da una pattuglia dei carabinieri in borghese ad andare a tutta velocità.
Forse fu proprio quell’episodio a fargli mettere la testa a posto. Entrò con concorso all’Istituto Superiore di polizia e divenne commissario. Da lì la sua carriera è stata in crescendo. Si è fatto un po' di mazzo qua e là. E’ stato l'angelo custode per il Nord Italia del ministro Maroni, a Venezia ha arrestato quei matti del carrarmato in piazza San Marco.
Sempre sulla laguna, è stato responsabile della sicurezza alla mostra del cinema mentre a Bologna è stato responsabile dell'antiterrorismo ai tempi dell’omicidio del giuslavorista Marco Biagi. Dal 2001 è arrivato a Trento dove è stato prima commissario capo e poi vicequestore aggiunto. Nel settembre 2013 il trasferimento a Trieste come capo della squadra mobile e poi a Bolzano come capo di gabinetto della Questura.
Sul cestello dei vigili del fuoco per «colloquiare» con gli anarchici sul tetto dell'ex asilo di via Manzoni. Con il giubbotto antiproiettile mentre scorta il pazzo che minacciava di far saltare con una bomba la chiesa di San Pietro. Questo era Roberto, uomo d’azione, ma anche di dialogo. Appassionato, ma anche riflessivo e diplomatico. Se gli si chiedeva quale fosse l’indagine cui era più legato non aveva dubbi: «Tutte hanno avuto delle caratteristiche che le rendono uniche ma quella che mi ha coinvolto di più è quella sulle rapine in villa iniziata dopo l'assalto ai Marangoni a Rovereto. Un'indagine difficile dove non esisteva giorno o notte, e si lavorava in continuazione. Ma alla fine i risultati sono arrivati, ed è questo l'importante».