il libro

«Mangiare carne, ormai è insostenibile»

Francesca Grazioli ha presentato il libro "Capitalismo Carnivoro", viaggio nell'industria alimentare e nei problemi planetari della carne


Ilaria Puccini


TRENTO. «La carne ancora oggi è protagonista indiscussa in cucina, un potere che però per la maggior parte del tempo resta invisibile». Il libro «Capitalismo Carnivoro» (Il Saggiatore), scritto dalla ricercatrice piacentina Francesca Grazioli, racconta chi siamo e come ci mostriamo attraverso la scelta di quel che mettiamo nel piatto, oltre alle conseguenze ambientali e sociali causate dal consumo intensivo di carne su scala globale.

Lo ha presentato giovedì al castello del Buonconsiglio su iniziativa della libreria Due Punti.

Francesca Grazioli, classe 1988, è nata a Piacenza e ha studiato Economia e Scienze sociali a Milano, sviluppando interesse nelle condizioni di vita dei paesi più poveri. In seguito ad esperienze in organizzazioni non governative, ha frequentato il Master di Slow Food in Scienze Gastronomiche a Pollenzo, studiando l’alimentazione dalle sue dimensioni gustative a quelle antropologiche.

L’idea di mettere per iscritto le esperienze lavorative e i pensieri maturati in un libro è nata in un preciso momento: «Stavo guardando un documentario statunitense del 1960, Harvest of Shame, dedicato ai braccianti per cui l’American Dream sarebbe rimasto sempre e solo un’illusione. Mi colpì come il presentatore in studio fumasse tutto il tempo, anche mentre teneva in braccio un neonato. Da quell’episodio pensai a quali comportamenti una volta considerati normali oggi ci paiono un’anomalia, e quali messaggi del presente, tra venti o trent’anni, ci sembreranno dissonanti; gesti che ci porteranno a chiederci: “Com’è che questo non era considerato un problema”?»

Alcune di queste anomalie, secondo Grazioli, riguardano anche la tavola: «Un etto di prosciutto reclamizzato su un cartellone a poco più di un euro, e la casualità con cui la consideriamo “piatto portante” di un pasto, con la concezione che questo non sia nutriente in sua assenza».

I prezzi della carne prodotta nell’industria intensiva di oggi, difatti, non rispecchiano i reali costi che comporta la sua produzione. Dalla coscienza degli animali sacrificati al macello, ai costi ambientali, non corrisposti dalle multinazionali e che dunque si ripercuotono sulla comunità, dai terreni resi sterili alle condizioni di sfruttamento della manodopera. Il tutto in nome di quell’euro sul bancone prosciutti.

Qualche cifra. «Oggi al mondo si stima che ci siano circa 80 miliardi di animali, dieci volte tanto l’umanità. Rispetto al 1950, un pollo di 45 giorni oggi ha una taglia raddoppiata. E ogni anno di ricerca si traduce in un giorno in meno di vita per l’animale prima del macello» afferma Grazioli. Ma l’impatto dell’industria intensiva non finisce qui, in quanto porta all’affermazione su un territorio della specie più profittevole a scapito della biodiversità.

Allevamenti di una stessa specie animale risultano molto più vulnerabili ai virus, e gli antibiotici somministrati per prevenire malattie, oltre ai fertilizzanti usati in agricoltura per produrre il loro mangime, compromettono le falde acquifere. Tutti costi che industrie e multinazionali, specie in Paesi meno democratici, non pagano.

Ma l’industria intensiva della carne porta anche conflitti, come nel caso degli scontri in Brasile tra governo e popolazioni indigene contrarie all’abbattimento dei loro villaggi e della foresta amazzonica per fare spazio alle colture di soia, di cui circa il 70% diviene mangime.

Le emissioni di agricoltura e allevamento sono riconosciute dalle Nazioni Unite e dalla Fao come le maggiori cause di cambiamento climatico provocate dall’impatto umano.

Quanto allo status di potere simbolico associato alla carne, si tratta di una delle riflessioni più interessanti del libro. «Nel libro cito il ricettario barbecue della Marlboro - continua Grazioli - dove le premesse sono: “Il barbecue è un diritto, non un privilegio. Cook like a man, the bigger the better”».

I luoghi comuni su virilità, sesso e mascolinità, insomma, si sprecano. Ma perché?

«Storicamente, in occidente, la carne è sempre stata il cibo “maschile” per eccellenza, prima di tutto perché è sempre stato il cibo di chi era più in alto nella società, il cibo dei nobili, dei ricchi e dell’imperatore, e ha anche una componente neo-coloniale, in quanto i mercati di riferimento sono ancora Stati Uniti ed Europa. Il cibo delle proteine, dei muscoli, del sangue e della violenza.

A livello empirico in realtà ci sono studi che hanno messo in dubbio anche la supposta dicotomia tra caccia e agricoltura come attività maschili e femminili, ma la narrazione degli uomini primitivi che cacciano la bestia assieme, eventi in realtà poco frequenti per il dispendio di energie che comportavano, è dura da scacciare dal nostro immaginario» spiega ancora Grazioli. «Al contrario, mangiare vegetariano è sempre stato associato, dispregiativamente, al femmineo. Per fortuna però questi stereotipi, piano piano, stanno venendo meno».

Analizzare le implicazioni negative del consumo di carne tuttavia non vuole essere uno stop categorico alla carne nel piatt: «Penso che con i diktat non si vada da nessuna parte - riflette l’autrice - il libro, più che consigli, vuole invitare alla riflessione dalla mia esperienza, che è generalizzabile fino a un certo punto. Ho estrema fiducia nei miei lettori, penso che ognuno, sulla base del proprio percorso e dunque di ciò che nel libro lo colpirà maggiormente, possa raggiungere un approccio più consapevole, e anche una speranza: ho avuto tanti momenti di sconforto a fare conti con certi fatti durante la scrittura, ma penso che sia un disagio necessario per cambiare la nostra prospettiva. Inoltre nel libro raccolgo anche esperienze positive, come in Vietnam, dove ci sono numerosi casi di recupero di specie animali e di preservazione della biodiversità, tutti progetti partiti a livello di comunità. Penso dunque che tutto parta nel momento in cui non ci si sente più soli ad affrontare questa battaglia».

 













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