«La cantina affossata dai troppi debiti»
Il socio di minoranza Marcello Rosa accusa. Ma l’avvocato Stefenelli spiega: «Dalla Opera non manca una bottiglia»
TRENTO. «Opera era come una Ferrari con attaccato dietro il rimorchio di un camion. Era frenata dai debiti, ma il progetto dal punto di vista economico era perfetto». Marcello Rosa, patron della Dolomatic, azienda leader nella ristorazione automatica, era socio di minoranza della Cantina Opera di Verla di Giovo («Ci avrò perso 220, 230 mila euro», dice con rammarico) e spiega come sono andate le cose: «Io sono entrato in società nel 2012. Conoscevo Alfio Garzetti dai tempi della Cassa Rurale. Sono entrato perché il progetto era ottimo. Il conto economico stava in piedi e c’era spazio per un prodotto di qualità. Però, sia io che gli altri soci di minoranza, non sapevamo che c’era un carico di debiti troppo alto. Lo abbiamo scoperto al bilancio che avevano caricato costi molto alti per la costruzione della sede fatta dall’impresa di Zanotelli. Sarebbero bastati un capannone e un ufficio, invece di una sede così costosa. Io mi ero fidato». Rosa spiega non sapeva nulla del contratto di affitto d’azienda con Arepo: «Cosa c’è scritto esattamente nel contratto non lo so. So che lo hanno fatto, ma io non parlo con Garzetti e Zanotelli da due anni. Noi, quando le cose sono iniziate ad andare male e sono spuntati i debiti, ci siamo rivolti all’avvocato Bertuol e siamo andati in Procura. Peccato, perché il vino era ottimo e il progetto poteva avere successo, ma c’erano troppi debiti non necessari a partire da quelli contratti per la struttura». L’avventura era nata dopo l’acquisizione della storica cantina di Napoleone Rossi che si trova in un terrazzo naturale sulla val di Cembra. Una sede prestigiosa che però è pesata sui conti fin dall’inizio.
Adesso la Procura ipotizza che i soci di maggioranza abbiano architettato un piano per vendere le 200 mila bottiglie in magazzino, valore ipotizzato sopra il milione di euro. Da qui l’inchiesta per bancarotta fraudolenta con 8 indagati, tra amministratori e consulenti. Le bottiglie, questa è l’ipotesi, le avrebbe fatte sparire la Arepo, società che aveva sottoscritto un contratto d’affitto d’azienda con Opera. L’avvocato Marco Stefenelli, che difende proprio i consulenti, però fa sapere non manca neanche una bottiglia: «Il contratto d’affitto d’azienda in questi casi si usa normalmente ed è perfettamente legittimo. Arepo doveva comprare le bottiglie da Opera per poi commercializzarle. Questo, ovviamente, prima del fallimento. Dopo, non manca neanche una bottiglia dalla cantina». E’ da prevedere che le difese presenteranno ricorso al Tribunale del riesame contro il sequestro delle 200 mila bottiglie che ancora devono diventare Trento doc dal momento che non hanno subito il procedimento di sboccatura.
Dalla cantina intanto fanno sapere che Opera stava superando il momento di difficoltà e che erano stati raggiunti accordi con le principali banche creditrici, ovvero Cassa Rurale di Lavis e Cassa Rurale di Trento. Era in corso di definizione l’accordo con la terza banca creditrice, la Sparkasse. All’interno di Opera spiegano anche che sul conto corrente della società c’era una notevole liquidità, sufficiente ad assicurare ossigeno per i momenti di crisi. Resta il fatto che il Tribunale ha preferito dichiarare il fallimento con sentenza del 12 dicembre 2017. Sotto accusa, in particolare, una la compensazione tra crediti e debiti con la F.lli Zanotelli, società di costruzioni che aveva realizzato la cantina e che fa capo a Bruno Zanotelli, uno dei due soci di maggioranza di Opera. Il Tribunale fallimentare aveva proprio inviato la sentenza alla Procura insieme agli atti sulla compensazione. Anche dalla cantina, però, fanno sapere che non sarebbe uscita una bottiglia dal magazzino, ma questo saranno le indagini a verificarlo.