«Io, eterna esiliata in cerca delle radici»

«Le mie storie crescono come un seme, sono loro a scegliermi. E con i miei parenti non ho bisogno di inventarmi niente»


Sandra Mattei


E' una signora, minuta, dal volto bambino dove spiccano grandi occhi appassionati e curiosi. Isabel Allende in città per ricevere la laurea honoris causa dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, nell'incontro con la stampa della mattina, esprime raccontando a ruota libera dei suoi libri, della sua famiglia, del suo rapporto con il Cile e di quello con i lettori, la sua anima indomita e leggera. Battagliera nel rivendicare per tutti gli oppressi, e le donne in prima fila, il diritto ad avere un futuro migliore e senza guerre, ma lieve nell'elaborare attraverso la scrittura impastata con i sogni e con la fantasia, i passaggi più tragici della sua vita e del suo popolo. Una scrittura che ha valore terapeutico e che può riallacciare in modo costante le fila con quel Paese e quella famiglia che ha dovuto abbandonare. A chi le chiede se spera in una vita felice, lei risponde: «Non mi interessa una vita felice, ma piuttosto interessante, appassionata, diversa, anche dolorosa: l'importante è che sia una vita da raccontare». Ed a proposito del suo periodo più doloroso, quello della morte della figlia Paula e della capacità di tornare alla voglia di vivere, la Allende confida serafica: «Per due anni ho vissuto come paralizzata, non riuscivo a scrivere. Poi una notte ho sognato Antonio Banderas nudo: l'ho arrotolato su una tortilla e l'ho mangiato. Così mi è tornata la voglia di vivere ed è nato il libro “Afrodita” a base di gola e afrodisiaci». Ecco allora l'Allende pensiero, come si è manifestato in quasi un'ora di conservazione.

Quanto ha pesato nei suoi libri l'essere nata in Cile e quanto la sua famiglia? Pensa che avrebbe scritto le stesse storie se non fosse stata costretta a vivere altrove dopo il golpe?
Se fossi rimasta in Cile, penso che sarei rimasta una giornalista. Ma il passaggio dal giornalismo al romanzo è stato necessario, perché in Venezuela non avevo la possibilità di scrivere sulla stampa. Così è nato il romanzo “La casa degli spiriti”, quando ho ricevuto nel 1981 la notizia da Santiago della morte di mio nonno, quasi centenario. La fonte di ispirazione è rimasto il Cile degli anni Sessanta e Settanta, la famiglia dove sono cresciuta in quel clima irripetibile del governo Allende. Quanto alla mia famiglia, non ho bisogno di inventare niente, mi rifornisce di spunti in abbondanza.

Ora che il Cile è governato da Michelle Bachelet e che in altri stati del Sud America sono alla guida riformisti come Chavez, Morales e Lula, cosa si augura per il suo continente?
Quello che ha distinto il nostro continente è stata la disparità di classe enorme tra masse emarginate dal progresso e dalla ricchezza e i pochi privilegiati. Il capitalismo puro non funziona in Sud America ed ora mi auguro che i governi attuali, pur differenti tra loro, riescano ad affrontare e risolvere questi problemi annosi.

Lei ha dichiarato che i suoi libri non nascono nella mente, ma dalla pancia e che non è lei a scegliere le storie, ma sono loro a sceglierla. Può spiegare come avviene questo processo?
L'unico caso in cui ho scritto un libro seguendo uno schema precedente è stato con “Zorro”, perché era coperto da copyright. In generale scrivo con un'idea di tempo e di luogo, ma non so a priori quali saranno i personaggi. Le loro storie crescono come cresce un seme, non so spiegare come, per quello ci sono i critici che analizzano e danno spiegazioni.

Come è stato il passaggio della sua attività giornalistica a quella di scrittrice?
Quando non ho potuto più esercitare la professione giornalistica, il passaggio alla scrittura di romanzi è stato naturale: avevo già l'allenamento a cercare le notizie, la curiosità nel raccontare gli altri, la volontà di documentarmi. Ho cercato di seguire così le regole del giornalismo anche nei libri, cercando di afferrare il lettore per il collo e di tenerlo fermo fino alla fine. Questo almeno è quanto dovrebbero fare gli scrittori, anche se molti, con il successo, se ne dimenticano.

Nei suoi libri lei mescola reale e soprannaturale, culture ed epoche diverse sostenendo una cultura meticcia. Cosa pensa di chi contrappone il conflitto di civiltà?
Sono figlia di un diplomatico, sono stata migrante e straniera: sono un'eterna esiliata. Le mescolanze culturali sono inevitabili e penso che le differenze tra le popolazioni siano molto meno delle somiglianze: in fondo vogliamo tutti le stesse cose, indipendentemente dal colore della pelle. Chiediamo che i nostri figli possano vivere in mondo migliore, senza violenza, abbiano la possibilità di istruirsi e di vivere con amore.

Si può fare politica anche scrivendo romanzi?
Quando si raccontano storie, non si può non contestualizzarle in una società, con i suoi problemi politici, altrimenti si scrive una telenovela. Io non scrivo libri politici, ma la politica è dentro i miei romanzi. Non scrivo nemmeno romanzi d'amore, ma è l'amore a far muovere i miei personaggi, e il sesso. Scrivo anche di sesso, non di pornografia, solo perché mia madre è viva.

C'è chi pensa che i libri servano soprattutto a chi li scrive, più che a chi li legge: lei perché scrive?
Quando si legge un libro è importante identificarsi nei personaggi, condividere le esperienze: si stabilisce così una connessione, come succede con tutte le opere d'arte.

Ogni anno si scrivono 360 mila libri nuovi, ma perché solo pochi hanno successo?
E' per quella connessione di prima.

E' contenta di ricevere la laurea ad honorem?
Contentissima, anche perché farò arrabbiare molti letterati cileni.













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