«Ecco perché il carcere cattivo fa male»
Due ex detenuti si raccontano agli studenti: «La scuola e il lavoro ci hanno salvati». La vita in cella e la scrittura come rifugio
TRENTO. Che lezione strana, e intensa, ieri mattina al liceo Rosmini. Duecento ragazzi nell’Aula magna, in cattedra niente professori. Ci sono due ex detenuti a parlare di reati, di pena, di vittime e colpevoli, e della vita che si sono ripresi in mano, molto grazie alla loro convinzione, molto anche grazie alla fortuna. Con loro c’è Ornella Favero, giornalista, da anni volontaria nel carcere Due Palazzi di Padova, dove ha fondato la rivista «Ristretti orizzonti» in cui lavorano detenuti (anche delle sezioni di alta sicurezza), ex detenuti e volontari. «Dalla viva voce» si chiama il progetto, promosso dall’associazione Il Gioco degli Specchi, che porta storie di carcere dentro le scuole e nelle prossime settimane porterà dodici classi trentine a visitare il carcere di Padova grazie a insegnanti come Amedeo Savoia e Antonella Valer.
Le storie. «Mi chiamo Andrea, ho 38 anni e sono finito in carcere quando ne avevo 21 perché ho ucciso una persona in un periodo in cui ero scollegato dalla realtà». Comincia così il video in cui Andrea racconta la sua storia: asciutto, crudo, parte da lontano, da quando ragazzino comincia a farsi le canne. Solo anni dopo arriverà l’eroina, la convinzione di dominarla, la lotta con i genitori che tentano disperatamente di salvarlo («Erano diventati solo un ostacolo, li detestavo»), fino alla tragedia che segnerà la sua vita. Viene condannato in primo grado a 25 anni, poi ridotti a 21, con gli sconti per buona condotta e l’indulto ne ha scontati 15, da 7 è un uomo libero, lavora in uno sportello di orientamento giuridico. «Sono stato fortunato a capitare a Padova - dice - perché dal carcere sono uscito gradualmente, i permessi, il lavoro all’esterno, la semilibertà. Ho potuto ricostruirmi e ricostruire il rapporto con la mia famiglia, quando sono uscito avevo un lavoro che mi ha permesso di essere indipendente. Se dopo 15 anni di galera esci e hai solo un sacco nero con le tue poche cose, non ce la fai».
In cattedra c’è anche B. (chiede di non scrivere il suo nome, «se uno ha scontato la pena ha il diritto di scomparire») ma la faccia ce la mette anche lui, parlando davanti a platee di studenti della sua vita, e lavorando nella redazione di «Ristretti orizzonti». Ha 55 anni, è stato fuori e dentro dal carcere infinite volte da quando ne aveva 19, e venne arrestato la prima volta per furto. Quinto di 10 fratelli, frequentava il liceo artistico, un giorno decide di lasciare la scuola affascinato dalla bella vita e dai soldi dei contrabbandieri. Comincia la sua carriera criminale rubando con gli amici, nei parchi, statue che poi rivendono: dai furti si passa alle rapine, poi allo spaccio di droga. «Il carcere per me è stata una scuola di criminalità». Racconta dell’ozio, «il pensiero fisso era uscire il più presto possibile e ricominciare, quando uscivo si festeggiava con i vecchi amici, e tutto ricominciava uguale». Dentro e fuori, fino all’ultimo arresto per traffico di droga. La spavalderia si sgretola, arriva il conto dei vari processi: 14 anni, una montagna, finiti di scontare un anno e mezzo fa.
La salvezza. Per B. arriva al Due Palazzi di Padova: «Un educatore mi propose di riprendere a studiare, ho iniziato a collaborare con il giornale. Ho incontrato volontari, studenti, insegnanti, ma soprattutto le vittime di reato. È stato un ascolto importante, prima pensavo che un furto è un reato contro il patrimonio, poi ho capito che la vita delle vittime viene stravolta». Anche B. ha sperimentato un’uscita graduale dal carcere, ha ricostruito i legami familiari, anche con suo figlio: «Di lui mi sono perso tanto, ma oggi è contento di quello che faccio».
Gli studenti ascoltano, in un silenzio totale dove perfino i cellulari tacciono. Poi, quando è il loro turno, prendono coraggio e fanno domande: com’è stato reinserirsi?, è facile mantenere una buona condotta?, come si comportano gli agenti?, come hai superato la tossicodipendenza?, qual è il primo pensiero quando entri?, pensi mai a come sarebbe stato se non fosse andata così?.
Andrea e B. rispondono senza reticenze. «All’inizio chiedevamo di evitare domande sulle storie personali», spiega Ornella Favero, poi abbiamo capito che parlare di carcere in generale lo fa sentire qualcosa di distante». C’è bisogno di storie per avvicinare, per interessare.
La vita in cella. Pochi metri quadrati da condividere, «immaginatevi di stare per anni con la persona che detestate», provoca Andrea. «Non hai spazi privati, gli agenti ti possono controllare anche mentre sei in bagno. Non decidi tu quando fare la doccia, né quando spegnere la luce». «Pensate solo a cosa vuol dire vivere per anni rinunciando alla sessualità», aggiunge B., «ho accettato cose vergognose ma ho fatto finta di niente per evitare provvedimenti disciplinari, e non ne ho mai preso uno». In cella la convivenza forzata alza il livello della tolleranza, ma provoca anche tensioni. «La scrittura - racconta Andrea - è spesso l’unico rifugio, io mi chiudevo di notte nel bagno-cucina, e scrivevo».
La violenza in carcere c’è, «purtroppo ricadono sugli agenti anche compiti che non competono a loro». Chi entra in carcere con problemi di dipendenza quasi sempre viene lasciato a se stesso, «nelle mani dei compagni di cella». «Mi avranno dato degli ansiolitici per dormire, dentro è la prassi», prova a ricordare Andrea, «ma quando sono entrato ero l’assassino, la mia dipendenza è stata messa da parte. Pensavo che sarei rimasto lì per sempre». Invece no, per lui e per B. il dopo-pena è arrivato, con il riscatto.
Pena e recupero. Favero cita l’articolo 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E sferza i ragazzi: «Il carcere cattivo incattivisce, fa uscire peggiori. Dovrebbe invece assomigliare a una scuola. Il 70% di chi marcisce in galera, come molti chiedono, quando esce torna a delinquere. La percentuale scende tra il 16 e il 19% tra chi rientra nella società con percorsi guidati che passano per lo studio, occasioni di lavoro, condizioni dignitose. Se lo Stato è umano, ci guadagna la società, è un investimento sulla sicurezza. Smettiamola di illuderci che noi siamo i buoni, in carcere finiscono tanti che non lo avrebbero mai immaginato. Il carcere ci riguarda».
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