Dal carcere all’Africa «Una nuova missione in mezzo agli ultimi»
Padre Stefano Zuin, cappellano della casa circondariale sta per partire per il Sud Sudan, Paese dilaniato dalla guerra
TRENTO. Da cappellano del carcere di Trento a missionario in Sud Sudan. Per un anno, fino allo scorso primo gennaio, la “sua” Africa è stata la casa circondariale, ora padre Stefano Zuin, comboniano, classe 1949, è in procinto di partire per il continente africano. Tra le precedenti missioni: Ecuador, 10 anni, Malawi e Zambia, 18 anni.
Padre Stefano: dal carcere alla missione.
Sono entrambi servizi missionari vissuti tra gli ultimi, i poveri, gli stranieri che nel carcere sono il 70%. Un anno fa l’arcivescovo Tisi mi ha detto: “Vai lì dentro che c’è tanto Sud del mondo”. Adesso mi sono reso disponibile per il Sud Sudan, porterò il Vangelo, vivrò con i miei confratelli in una delle sette comunità internazionali, non con il gruppo di trentini/veneti o italiani. Là vi sono 45 missionari.
Perché il Sud Sudan?
Per tre motivi. È la terra dove è arrivato San Daniele Comboni; è la più giovane nazione del mondo nata nel 2011 alla fine di un lungo processo di pace con il Sudan; è un paese poverissimo devastato dal 2013 da un violento conflitto etnico che non si è mai fermato. Il Papa sta cercando di andarci da un paio d’anni.
Una scelta coraggiosa.
La mia “casa” è l’Africa. Vado gli ultimi anni di vita missionaria dove si vive la dimensione di povertà. Dovrò imparare una lingua nuova, nel frattempo comunicherò in inglese.
Come ha vissuto quest’anno in carcere?
Ho scoperto un mondo iniziando in punta di piedi e facendomi insegnare il carcere dagli stessi detenuti. Mi sono reso conto che dovevo guardare, ascoltare, stabilire una relazione umana.
Cosa ha osservato in particolare?
Il detenuto che sta facendo o ha fatto un cammino, cioè che ha preso coscienza del reato fatto, pensa al futuro con speranza e apre la sua vita ai valori spirituali; quello che invece è fermo al suo reato e non l’ha riconosciuto è legato alla materialità. Il punto di partenza è prendere coscienza di quello che si è fatto non rimuovendo il problema ma integrandolo nella vita. Così la persona darà un passo nuovo alla propria esistenza.
Come la vedevano i detenuti?
Alcuni come un distributore automatico di orologi o gadget vari che sono piccoli strumenti per iniziare un dialogo. Ringrazio l’Ottica Romani per il servizio generoso.
Incontrando i loro volti e ascoltando le loro storie che cosa ha capito?
Che sono pesci piccoli, i pescicani sono fuori.
Nel carcere i ricordi di padre Fabrizio Forti sono visibili ovunque: foto, articoli, preghiere.
È stata una figura carismatica che ha marcato la loro vita con la capacità di ascolto e incontro ai loro bisogni spirituali e materiali. Teneva sempre la porta aperta per accoglierli quando volevano arrivare.
Come si è mosso in questo anno?
Li ho visitati nelle celle facendo capire lo sbaglio fatto e non mettendo il castigo al primo posto; ho promosso un gruppo di letture settimanali in inglese e laboratori con tematiche quali la libertà, il senso della vita; ho consegnato Bibbie in inglese; dove mi chiamavano andavo a benedire le celle con il secchio.
Anche la struttura penitenziaria deve fare la sua parte?
Eccome! L’istituzione deve cambiare approccio arrivando a mettere in piedi la persona. La struttura è nuova e confortevole ma va animata ogni giorno con un’umanità autentica; a questo compito sono chiamati i dirigenti che la guidano e i lavoratori che vi operano. La popolazione detenuta che è giovane deve fare più sport. Manca il lavoro: ce n’è bisogno per apprenderne la dignità.
Chi la sostituirà?
Non un religioso ma un sacerdote diocesano. Ora ad interim c’è don Mauro Angeli, responsabile della pastorale universitaria.