«Così ricostruiamo donne nuove dopo le violenze»
Si chiama «Famiglia materna» e opera in Trentino dal 1919: «Cerchiamo di aiutare anche uomini, ma c’è scarsa adesione»
TRENTO. Creare donne rinnovate sulle ceneri lasciate dalle violenze. Questo è l’obiettivo dell’associazione “Famiglia materna”, che nasce nel 1919 da una donna di Rovereto, Maria Lenner: lo scopo originario era di sostenere le madri sole con figli, un tempo definite “ragazze madri”. Nel racconto di Anna Conigliaro Michelini, direttrice della struttura, si torna al passato e si guarda al futuro.
Da dove nasce l’esperienza di “Famiglia materna”?
«Nel 1919 erano numerose le donne vittime della violenza della guerra. Tante donne finivano per abbandonare i figli nelle ruote degli esposti. Maria Lenner intendeva creare una “famiglia della madre”, laddove mancava la tradizionale famiglia parentale. Il motto della fondatrice era quasi uno scandalo: “Non sarà né un penitenziario né un convento. Sarà un luogo di sorrisi, allegria e indipendenza”. Siamo rimaste fedeli a queste idee».
Quanto aiuto riesce a dare oggi “Famiglia materna”?
«Sosteniamo più di 50 nuclei familiari. Solo nel 2016 abbiamo ospitato 38 donne vittime di violenza, con circa sessanta figli. Abbiamo anche delle residenze protette, nell’ambito del “progetto Aurora”, dove i nostri ospiti sono seguiti da specialisti. Col tempo abbiamo attivato un nido destinato a tutta la città: è un nido definito “free-way”, ovvero aperto 7 giorni su 7 e 24 ore su 24. Siamo partiti dalle esigenze delle utenti, il cui lavoro spesso presenta turni incompatibili con gli orari tradizionali».
La violenza sulle donne nasce spesso da una concezione distorta dell’identità maschile. Come vi muovete per promuovere l’idea di un “uomo nuovo”?
«Con il programma “Cambia-Menti”, destinato agli uomini maltrattanti, cerchiamo di affrontare anche questo tema: purtroppo il programma ha raccolto l’adesione di un numero esiguo di persone. Sono molte volte uomini “normali”, persino di successo in altri campi della vita. Il progetto è volontario, a differenza di quanto accade in altri paesi come la Spagna. Gli uomini tendono a minimizzare, a negare o a deresponsabilizzarsi: è sempre colpa degli altri».
Come riuscite a portare questi uomini ad una maggiore consapevolezza della propria condotta brutale?
«Il primo passo è rendersi conto che quella che compiono è violenza e ne sono responsabili. La violenza è una scelta, benché nei media passi da sempre un’idea della violenza maschile come un tratto quasi identitario: la rissa in discoteca che scatta perché uno ha guardato la tua ragazza, ecc. Gli uomini arrivano qui spinti dai parenti, dai servizi sociali o dal tribunale: la nuova legge sul femminicidio permette poi che queste persone ricevano un ammonimento formale dalla questura. Non è un gruppo di mutuo aiuto, ma un percorso che si avvale di specialisti. È però importante anche la presenza di uomini che abbiano maturato il percorso, perché capita che siano loro stessi a segnalare ai nuovi arrivati i comportamenti sbagliati che loro stessi giustificavano. Il percorso è a cadenza settimanale e dura 8 mesi: noi controlliamo che nel periodo del corso e per l’anno successivo abbiano cessato i comportamenti violenti. Per quanto ci riguarda, i risultati sono positivi: tra gli uomini che abbiamo seguito non c’è stato nessun ritorno alla violenza».
Come cambia la vita delle donne che completano il percorso di “Famiglia Materna”?
«Finita la fase del “Progetto Aurora” bisogna cominciare a vivere senza sussidi di tipo assistenziale. Le donne si trasformano da vittime a protagonisti delle loro vite: è il concetto di empowerment a cui teniamo molto. Abbiamo creato il fondo “La violenza non è un destino”: aiuta le donne in alcuni bisogni molto pratici, come le spese necessarie a fare la patente o un corso. Ci rivolgiamo perciò alla società civile: siamo contenti che quest’anno la “Women in run” abbia deciso di sostenerci».
Qual è la soddisfazione più grande che vivete nel vostro percorso professionale?
[Risponde Emanuela Skulina, della parte amministrativa.]
«La cosa più bella? È vedere queste donne cambiare, persino nel modo di comunicare, nella cura che mettono nel vestire, nell’autostima».