«Basta foto di ragazze all’angolo indifese»
Colloquio con Barbara Poggio, prorettore per politiche di equità e diversità dell’Ateneo: «Rappresentazione dannosa»
TRENTO. Rannicchiata in un angolo. Con le mani a proteggersi il volto dall’attacco di un uomo. E’ un’immagine simbolica, spesso usata dai giornali, anche il nostro l’ha fatto, per accompagnare il racconto di una violenza, di una molestia perpetuata con la forza: «Ma non è una foto che renda un servizio positivo alle donne che si trovano a fronteggiare questo genere di violenze. Anzi, le mostra passive, quasi indifese. Molto meglio utilizzare delle immagini veramente simbolo che, facciano capire subito di che cosa si parla: penso, per esempio, alla panchina rossa». La rappresentazione della violenza sulle donne, il problema culturale che ne sta alla base il più delle volte, è uno dei temi al centro di questo colloquio con Barbara Poggio, prorettore per politiche di equità e diversità dell'Università di Trento e docente di sociologia dell’organizzazione.
Professoressa Poggio, non è facile illustrare fatti, drammatici, di cronaca come la violenza sulle donne.
«Certo. Spesso questi episodi vengono rappresentati in un modo che non aiuta per niente le donne ad affrontare il problema. Pubblicare l’immagine di una vittima passiva non rende un buon servizio, come la tendenza a raccontare spettacolarizzando la vicenda. Pur comprendendo la necessità della stampa di dover attirare l’attenzione, servirebbe un supplemento di attenzione nell’affrontare questi temi».
Una rappresentazione più sensata quale sarebbe?
«Il racconto dovrebbe dare grande dignità alla vittima e dovrebbe essere collegata ad un’immagine simbolo che faccia capire che si parla di una persona a tutto tondo. Meglio dunque la foto di una campagna di sensibilizzazione che non di una donna all’angolo».
In termini generali come si dovrebbe affrontare il tema?
«E’ soprattutto un fatto culturale. Lo si affronta andando a rendere sempre più presente nelle scuole il tema del rispetto della donna: con un approccio diverso tra i più piccoli, ma parlando di molestie sessuali nei licei. Ripeto: il rispetto delle persone, delle donne, lo si impara. Le ricerche, a livello internazionale, lo dicono: quando c’è violenza sulle donne il raptus non c’entra praticamente mai».
A che cosa si riferisce?
«A certi racconti di violenze sessuali, di aggressioni. Si legge “era un bravo ragazzo, nulla lasciava pensare che facesse una cosa simile. E’ stato un raptus a farlo scattare a quel modo”. Ecco, questo (e ci sono molte ricerche a sostegno) non è vero: chi si comporta a questo modo covava da tempo un atteggiamento simile, ma non aveva gli strumenti culturali per capire quello che stava facendo. Non si tratta di raptus».
Come è la situazione nell’Università, ambiente che lei conosce meglio per la sua occupazione?
«Se si riferisce alle molestie sessuali debbo dire che rispetto al Regno Unito e agli Usa qui da noi la situazione è nettamente migliore. Cerimonie di “iniziazione” e alcuni aspetti di vita nei campus si portano appresso anche dei gravi problemi di molestie sessuali».
In termini più generali qual è la situazione femminile nell’Ateneo.
«Detto che non è negativa per quanto detto, resta qualche aspetto di criticità: le docenti al massimo livello, professori straordinari, a Trento sono la metà rispetto al resto d’Italia».