il personaggio

Addio Arturo, il clochard più amato

Si è spento ieri a 67 anni nella casa di riposo di Nomi. Orfano di padre, una vita difficile e la scelta della libertà a ogni costo


di Giorgio Dal Bosco


TRENTO. Buon viaggio, caro Arturo. Nell'Aldilà verso cui sei partito ieri, dallo pure per scontato!, tutte le anime dei trentini che ti hanno preceduto e che incontrerai ti faranno festa. Come ti sei fatto voler bene qui nell'Aldiqua, anche lì, e forse ancor di più, ti vorranno bene. Forse ti offriranno una sigaretta, forse San Pietro (se c'è) ti darà il benvenuto con un bicchiere di vino e una sigaretta. Forse ti indicheranno una panchina su cui adagiarti comodamente e sonnecchiare come facevi qui a Trento. Qualche anima del 118 terreno, tra quelle che eventualmente hanno già fatto questo tuo medesimo passo, vorrà avere il privilegio di essere il primo a presentarti ai compagni dell'Aldilà.

“Vedete – immaginiamo che dica – vedete costui è Arturo Caumo, valsuganotto di Ronchi. Sulla terra ci è rimasto pochi giorni più di 67 anni, sempre senza padre, vissuto con una donna di Baselga di Piné che, finché ha potuto, l'ha accudito come seconda madre. Poi, ancor bambino, un collegio e poi un altro. Poi un lavoro in fabbrica e poi, complice una gamba martoriata dalle ferite causate, come vittima, da un incidente stradale, si è affidato alle panchine dei giardini di Trento. Il suo tavolo da pranzo è stata una panchina apparecchiata con una bottiglia di vino. In verità, Bonomelli, Caritas e don Dante Clauser l'hanno accolto per un certo periodo, ma lui era un prigioniero della libertà. Libertà di vivere in ogni istante come gli dettava la sua idiosincrasia alle regole sociali, senza, però, far male a nessuno, rispettando le leggi tranne quella del vagabondaggio. Facendosi voler bene: da tutti. Le “ferie”?: un paio di giorni al Santa Chiara da cui usciva pulito, con la gamba curata al meglio, pantaloni e maglione rassettati. Infine, a meno di 60 anni, un'anima pia del sottobosco di qualità della politica trentina gli ha trovato un posto alla casa di riposo di Nomi dove pure lì ha trasmesso e ricevuto simpatia. È stato curato, qualcuno gli ha pagato anche la dentiera.

Aveva la sua stanzetta calda, le infermiere gli affidavano qualche commissione facile facile. Talvolta usciva al bar del paese, ma, se non stava agli ordini, per una settimana non poteva più uscire. Qualche mese fa un dolorino, la terribile diagnosi e il suo arrivo qui da noi tra le nuvole. Ecco, chi è il qui presente Arturo, il clochard più amato dai trentini.”

Quando Arturo aveva 42 anni ed era nel pieno del suo vagabondaggio ci aveva concesso – davvero!, concesso – un'intervista. Era un mattino di autunno inoltrato e sedevamo su un panchina di piazza Dante. Sulle labbra della bocca aperta a triangolo resistevano alcune briciole di un panino che, in realtà, era stato succhiato e non masticato. Per forza, con quell'unico avanzo di dente derelitto, tal quale un soldato malconcio in una trincea disseminata di morti, non l'avrebbe potuto masticare. Gli tremava la barba, gli tremava il mento, gli tremava la goccia al naso che alla fine gli era piovuta sulla sigaretta in bocca. Gli tremavano le lunghe ciglia bagnate di lacrime, figlie cristalline del freddo patito quella notte dormendo in uno scatolone disperso in un vicolo di piazza Duomo. Sembrava anche lui una di quelle foglie secche che resistevano sull'albero che ci sovrastava con i suoi lunghi rami. Ma sarebbe bastato un alito di vento e anche la sua foglia d'autunno sarebbe caduta. Invece, un destino ancora illeggibile l'ha fatto vivere ancora cinque lustri. Solo adesso quella foglia si è staccata dall'albero e, ondeggiando nell'aria, è planata a terra. Era tristissimo guardare quest'uomo avvolto nel freddo con una mano violacea che ogni poco portava lungo la gamba malata mentre gli occhi castani strizzati per il dolore della piaga testimoniavano il dolore. Quella mano violacea con il cui dorso, adesso, si era pulito le labbra, anch'esse violacee, dalle briciole di quel panino. Quella mano violacea tra le cui dita, poco dopo, senza che lui se ne accorgesse, si stava spegnendo il mozzicone della sigaretta che stava fumando.

Aprendosi il giaccone sudicio tra un bisbiglio e l'altro, tra un “ruggito” e l'altro, tra uno biascichio e l'altro ha guardato il traffico che scorreva veloce lì all'incrocio di via Pozzo e via Torre Vanga. Lo osservò come un gatto randagio che è saltato su un cumulo di immondizie da cui non ha ricavato nemmeno uno sbrendolo di carne.

Non è mai stato un accattone, non ha mai chiesto una lira. Se lo faceva ti faceva capire che mille lire non le avrebbe rifiutate. Ecco, il massimo che ti chiedeva era una sigaretta, quello sì che si permetteva di chiedertela. Dai bar nessuno mai l'ha cacciato perché non infastidiva nessuno. Anzi, tutti gli volevano bene. Tante volte è finito a terra tanto da sembrare morto. Chiamavano l'ambulanza e si ripeteva con il massimo del rispetto il rituale dei barellieri che si facevano largo tra il capannello di persone, lo chiamavano per nome, gli tastavano il polso e lo spostavano sulla portantina e poi lo portavano al Pronto Soccorso.

Per certi versi è stato un gentiluomo. In quell'intervista ci ha confidato che da operaio aveva una fidanzata ma di lei non vuole in nessun modo parlare. “'No sta ben, porèta, che so marì, se la s'è sposada, el sapia che 'na volta la steva con mi”.

In fondo, quell'intervista è stata una sua confessione spontanea. Non ci parlava, parlava a se stesso passando da striduli soliloqui a accesi colpi di rabbia verso chi, (ma chi?) non lo voleva capire. “Mi no so miga cossa che l'è 'na vita normale, come la vossa. Vorìa capirlo”. E poi, tuffando la testa dai capelli neri con qualche filo argenteo, quasi singhiozzò: “Maledeto, maledeto inverno. Riscierò de ciapar su la doia. Maledeto inverno.”

No, caro Arturo, quell'inverno lo passasti indenne, come tanti altri successivi. A dover dare l'addio alla tua vita non sono stati i tuoi eccessi di libertà. È stato il destino. Che ti sia lieve la terra, Arturo. Anzi, in accordo al nostro incipit semi religioso di questo pezzo: “Sit tibi terra levis”.













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