«Settanta orsi non c’è nessuno che li prenderà»
Dopo l'incontro del Parco Adamello-Brenta con i sindaci di venerdì, il responsabile della comunicazione scientifica Andrea Mustoni chiama a un approccio tecnico e serio al problema: «Dopo Caldes, va rifondata la convivenza con la popolazione» (foto: Andrea Mustoni)
TRENTO. Dopo l’incontro con i sindaci di venerdì, il Parco Adamello Brenta ha rotto il “silenzio stampa” a cui si era attenuto fino ad allora sulla tragica vicenda di Caldes e sulla realtà, presente e futura, della presenza dell’orso in Trentino.
Quella del Parco non è una voce qualsiasi. L’orso e il mantenimento della sua presenza in Trentino, allora ridotta a una decina di esemplari, è stata una delle spinte principali che hanno portato nel 1988 alla nascita del Parco. E la necessità di “rinsanguare” quel nucleo ormai troppo esiguo di animali aveva portato al progetto Life Ursus, tra il 1996 e il 2004. Proprio il Parco, infine, può contare sulle risorse scientifiche e professionali più accreditate in materia di orsi. Uno di loro è il responsabile della comunicazione scientifica Andrea Mustoni.
Lei fu coordinatore a suo tempo proprio del progetto Life Ursus.
La prima cosa che voglio dire è che quello che è successo, la morte di un ragazzo, ci ha colpito in modo drammatico. Anche per i risvolti umani di questa tragedia, che ci ha tolto il sonno, non abbiamo voluto intervenire finora. Lo facciamo adesso con spirito costruttivo: dobbiamo capire come portare avanti in Trentino la convivenza tra orsi e popolazione. E a questo punto non è importante concentrarsi sugli errori commessi in passato, non per noi almeno, ma lavorare per costruire un futuro sostenibile. Il Parco è pronto a fare la sua parte, come si è già offerto di fare negli ultimi anni.
Quello che è successo segna uno spartiacque. E la sensazione è che si sia passati da una sostanziale inerzia a un clima di ipertattenzione. Con risposte che sull’onda dell’emotività sembrano più ascrivibili a categorie arcaiche di esorcizzazione delle paure attraverso gesti eclatanti, che a un approccio tecnico. Lei come vede l’idea di ridurre il numero di orsi, spostandone una settantina?
La risposta secca alla domanda è che mi sembra assolutamente irrealistica. Noi dovremmo in tempi ragionevoli catturare 70 orsi, e già questo mi sembra un grosso problema. E soprattutto, dovremmo trovare qualcuno che se li prende, questi 70 animali. E qui siamo alla fantasia. Quale amministratore potrebbe importare orsi nel proprio territorio? E di corsa poi, così come glieli mandiamo. Per liberarli in natura: non parliamo di zoo o parchi. Non penso che esista nessuna possibilità.
Soprattutto ora che la premessa è che noi dobbiamo liberarcene perché sono troppo pericolosi per tenerceli, come dimostra la morte di un ragazzo che correva a un chilometro da casa. Ma al di là dei problemi “concreti” può essere giusto ridurre il numero di orsi?
In termini biologici, ragionando cioè sul “solo” animale orso, non avrebbe senso. Non sono troppi rispetto al territorio trentino, che può sostenerne benissimo anche di più. Ma non possiamo più affrontare il tema orso solo in termini biologici. Fondamentale è inserirlo nel contesto umano in cui deve vivere l’animale. Le nostre montagne, le nostre attività, le nostre comunità. Che devono continuare a vivere e devono accettare la presenza dell’orso. In altre parole, se la percezione sociale è che gli orsi siano troppi, dobbiamo considerarli troppi. E quindi ridurli di numero potrebbe essere corretto. Resta il fatto però che “come” ridurli è un problema concretissimo. E che comunque anche dimezzandoli non si risolve definitivamente la questione. Vanno trovati comunque i modi per una convivenza che è l’unica soluzione guardando oltre i prossimi mesi.
Voi studiate l’orso da 30 anni almeno: quali possono essere i modi?
Non sono in grado di dirlo. Proprio perché l’approccio non può essere solo legato alle caratteristiche zoologiche dell’orso, ma deve tenere conto di tutto il contesto antropico in cui va inserito. Bisogna che si restituisca la parola ai tecnici, dopo le urla scomposte di queste settimane. Bisogna uscire dalle ideologie e dalle tifoserie, sia da una parte che dall’altra. E servono sicuramente risorse. In informazione e formazione, in risarcimenti, in compensazioni. Non ho un piano pronto, ma so che un piano deve essere studiato, impostato e poi realizzato. Con i tecnici che si mettono a disposizione della politica, ma anche con la politica disposta ad ascoltarli.
Non sembra un lavoro semplice né breve.
E questo è un altro aspetto delicatissimo. Perché invece è necessario elaborare risposte credibili e metterle in campo in tempi brevi e condividendo ogni passaggio con la popolazione. Non c’è alternativa, perché in questo momento c’è un sentimento diffuso di rifiuto che temo possa tradursi in un aumento drastico del bracconaggio. In altre parole, il mio timore è che se non si trova il modo di far tornare accettabile la presenza degli orsi, finiranno per essere decimati in modo illegale. A quel punto mettendo davvero a rischio la loro sopravvivenza, come specie.
Quindi servono energie, competenze e risorse. La sensazione è che negli ultimi anni si sia andati in direzione opposta: le risorse sono semmai gradualmente calate.
Rispetto ai primi anni, quelli di Life Ursus, sicuramente. Ma vale per tutti i settori: l’amministrazione in generale è diventata più povera. Quindi non può essere un alibi: doverlo fare con risorse misurate, deve essere uno stimolo in più a lavorare al meglio.
Se “spostare” gli orsi è irrealistico, lo stesso vale con l’ipotesi di sterilizzare le femmine? Al doppio scopo di ridurre l’aumento numerico degli orsi e di eliminarne in gran parte l’aggressività?
Tecnicamente è complicato e impegnativo, ma non impossibile. Vanno catturate e sterilizzate in cattività. Per poi essere nuovamente liberate. Non è una passeggiata. Diciamo pure che è un compito durissimo, ma rimane comunque più percorribile dello spostamento in massa di orsi altrove: non hai bisogno di trovare qualcuno disposto a introdurli sul suo territorio.