scelte di confine

«Ho imparato la chirurgia d’urgenza a Gaza con Erasmus»

Un docufilm al Human Rights Film Festival di Berlino sull'esperienza in prima linea del roveretano Riccardo Corradini


di Luca Marsilli


ROVERETO. Sono passati quasi tre anni. Poco dopo il suo ritorno dalla striscia di Gaza, Riccardo Corradini si è laureato e ha vinto il concorso al Borgo Trento di Verona, dove da specializzando lavora in chirurgia generale. A Gaza aveva vissuto e lavorato per quattro mesi, in Erasmus, spostandosi su diversi ospedali periferici. Era stato il primo studente europeo a scegliere quella terra martoriata per integrare le proprie esperienze di studio. Ora la sua esperienza è raccontata anche in un docufilm, "Erasmus in Gaza" girato da Chiara Avesani e Matteo Delbio e prodotto dalla spagnola Arpa Films in collaborazione con Feltrinelli Real Cinema. Ha vinto numerosi premi, tra cui il "Best reportage long" ai Dig Awards. Ultima partecipazione significativa: il 16 ottobre era a Berlino, ospite del Human Rights film Festival. Edizione dedicata quest'anno alle "persone che rischiano tutto per le loro idee. Che lottano per la libertà e ci dimostrano che un mondo migliore è possibile".

Messa così, fa un po' impressione. Ma ripartiamo dal 2018. Perché un Erasmus proprio a Gaza?«Ero studente di medicina a Siena e mi appassionava la chirurgia d'urgenza: una branca che in realtà in Italia non esiste specificamente, rientra nella chirurgia generale. Ma ci capiamo. In molti altri Paesi è una specializzazione consolidata. Comunque su questo volevo fare la tesi. E specificamente sulla gestione dei momenti di grande afflusso di feriti su strutture non dimensionate, ovviamente, per accoglierli. Quindi fasi acute di emergenza: quando decine o centinaia di persone vengono coinvolte in un evento drammatico. E si riversano sui pronto soccorso. Gaza, purtroppo per loro, da questo punto di vista era il luogo ideale. Perché l'orrore di una tragedia di massa si ripeteva di fatto ogni venerdì».

Cioè, a Gaza era come avere un terremoto a settimana?«Non proprio, perché si parlava di ferite da arma da fuoco, soprattutto, ma volendo rendere l'idea diciamo così. Ogni venerdì la gente di Gaza si metteva in cammino per la "marcia del ritorno": raggiungevano in massa il confine per rivendicare il loro diritto alle terre e a non essere confinati e assediati. Ogni venerdì l'esercito israeliano rispondeva sparando su quella folla, con decine tra morti e feriti. Si parla di 60, 70 feriti da arma da fuoco, più o meno gravi. Che arrivavano in strutture dimensionate per curarne alcuni, non certo decine. Un problema gestionale e organizzativo, oltre a tutto il resto».

Immagino non sia facile nemmeno dal punto di vista emotivo, reggere una situazione del genere.«Nessuno si abitua a fonteggiare cose di questo tipo, a vedere decine di feriti che arrivano assieme e hanno bisogno di aiuto. Una situazione molto pesante dal punto di vista umano, ma anche estremamente provante e formativa: devi trovare un modo, hai stimoli fortissimi a trovare soluzioni».

Lei a Gaza lavorava direttamente con i feriti, cioè operava da medico?«Facevo il medico. Il sistema prevedeva che ci fosse una prima fase di smistamento dei feriti, sul luogo della sparatoria: lì i più gravi venivano inviati agli ospedali centrali, quelli meno preoccupanti ai pronto soccorso periferici. Nei miei sei mesi a Gaza ho lavorato sempre in pronto soccorso perifici, più una volta, proprio per esigenze della mia tesi, al punto di smistamento al confine. Negli ospedali periferici ho fatto sei venerdì, quindi sei marce del ritorno con il loro corollario di decine di feriti e contusi».

Poi è tornata in Italia.«Sì, nel maggio 2019. Mi sono laureato in piena pandemia Covid. Ero stato anche il primo studente della mia facoltà, a Siena, a sostenere un esame on line. In una confusione totale, tutto raffazzonato, tutto da inventare. Nessuno era preparato a quella che poi sarebbe diventata purtroppo la normalità. Era il 12 marzo».

E dopo la laurea, 110 e lode, subito la specializzazione a Verona. Come si trova?«Bene. È un lavoro diverso, in chirurgia generale, ma abbiamo anche regolamente emergenze dal pronto soccorso. Non è la parte preponderante della mia attività, oggi, ma comunque la chirurgia in situazioni di emergenza continuo a trattarla. E continuo a trovarla estremamente interessante».

Primo studente in Erasmus a Gaza: anche logisticamente non deve essere stato semplice.«Sarebbe stato proibitivo, se non mi avesse aiutato in modo determinante Meri Calvelli, la presidente della Ong Acs. Lei vive e lavora a Gaza dal 1987: è a lei che la mia Università si è appoggiata per organizzare tutto. Il mio ingresso a Gaza e i mie movimenti all'interno della striscia: cose che da qua possono sembrare scontate ma non lo sono affatto».

Ma l'idea del docufilm, che in questi giorni è anche nella programmazione del canale «documentaries» di Sky, come è nata?«È stata proprio Meri Calvelli. Ha ospitato a Gaza Matteo Delbò, come aveva ospitato il roveretano Emanuele Gerosa mentre girava lo straordinario "One more Jump", il film sul parkour a Gaza. Le acrobazie dei ragazzi sulle macerie, il parkour, una disciplina sportiva vera e propria, come riscatto dalla desolazione e dalla disperazione. Comunque questo non c'entra, chiacchierando con Delbò, gli aveva detto che in quel periodo avevano anche a Gaza il primo studente in Erasmus, un futuro medico. Io. Delbò ne ha parlato con Chiara Avesani e poi assieme mi hanno proposto di documentare la mia esperienza. Chiarito che non avrei dovuto fare nulla di diverso da quello per cui ero lì, perché no. Per cinque settimane siamo stati sempre assieme. Io continuavo a fare quello che avrei fatto comunque, loro mi seguivano in ogni situazione. Presa diretta, nulla di preparato. Una testimonianza».













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