Dopo 9 mesi in Tanzania ritorno forzato a Cavedine
Il virus ferma anche il volontariato. Margot Bolognani, 26 anni, laureata in Scienze del Servizio Sociale, con i Corpi Civili di Pace stava attuando il progetto per l’integrazione degli albini
Vigo cavedine. Fra le notizie che ricorrono giornalmente sull’evoluzione sanitaria del coronavirus, incontriamo l’esperienza della giovane Margot Bolognani di Vigo Cavedine, una ragazza (26 anni) laureata in Scienze del Servizio Sociale, che fino a qualche settimana fa lavorava come volontaria dei Corpi Civili di Pace in Tanzania (associazione che invia ogni anno giovani volontari, che si impegnano a sostenere le capacità operative e tecniche della società civile locale per la risoluzione dei conflitti).
Come tanti italiani che lavoravano in Africa anche Margot, sommamente dispiaciuta per aver interrotto il progetto socio-educativo a cui stava lavorando, ma nel contempo in ansia per le frammentarie notizie, che giungevano dall’Italia, è dovuta rientrare dopo un lungo viaggio: dalla città di Mbeya (al confine con Zambia e Malawi), fino a Dar Es Salaam (dove si trova l’aeroporto), e da lì dopo lo scalo ad Addis Abeba finalmente a Roma.
La sua è un’esperienza di vita del tutto inconsueta e coraggiosa per ragazzi della sua età sia per le ragioni di fondo (principi di umana solidarietà verso persone a cui manca il necessario per vivere) che per le modalità con cui è maturata questa “missione civile”. Infatti la sua storia nell’Africa centro-orientale è cominciata nel 2014 in Tanzania con sette mesi di volontariato nell’orfanotrofio di Tosamaganga, e un anno di Servizio civile nel centro orfani di Ilembula.
Nel giugno del 2019 Margot Bolognani ha deciso nuovamente di ripartire per la Tanzania, impegnata assieme alla collega Giuliana nelle iniziative dei Corpi Civili di Pace per il progetto “Nyeupe na Nyeusi”, che in lingua swahili significa “il bianco e il nero”, e in questi nove mesi si è occupata di persone con albinismo, una malattia genetica per l’assenza di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi, piuttosto diffusa in Tanzania (5 volte di più che in Italia). Ad un fase di avvicinamento e di studio nella quotidianità a contatto con le famiglie, colpite da albinismo, con precise indicazioni sul modo di difendersi dai raggi del sole (crema protettiva solare, indossare vestiti coprenti, occhiali da sole e cappello a tesa larga) per evitare l’insorgere di tumori della pelle, si è passati alla fase di coinvolgimento della comunità sul tema dell’albinismo in modo da evitare quelle forme di discriminazione (derisioni, bullismo, segregazione per una sorta di maledizione religiosa,…), che purtroppo sono frequenti in quella realtà sociale.
Oltre a diversi villaggi con parecchi casi di albinismo Margot e Giuliana hanno visitato 13 scuole primarie e secondarie del distretto di Mbeya, conosciuto i minori albini che le frequentano, e pianificato con insegnanti e alunni dei training sull’albinismo che si sarebbero svolti nel mese di maggio e giugno per poter portare maggiore conoscenza e consapevolezza nella comunità rispetto alla problematica e per far sì che le persone con albinismo si sentissero un po' più parte di quella comunità apparentemente così diversa da loro. Però l’interruzione forzata ha costretto il rinvio del progetto a chissà quando.
Anche se Margot ora è a casa in quarantena, rassicurata dai suoi cari, il suo pensiero corre in Tanzania «nella speranza che il virus non la infetti con voracità, perché le strutture ospedaliere sono precarie, perché l’acqua già è un lusso da bere, figuriamoci per lavarsi le mani, perché non tutti hanno la possibilità di stare in casa, perché c’è chi una casa non ce l’ha».
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