I “ragazzi del ‘64”: Fabio Rosa e quell’incontro con il preside Viola
In attesa del raduno decennale dei diplomati all’Istituto, in programma a settembre, parlano i protagonisti di un’epoca
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DE MANINCOR «Che carattere quei prof»
TRENTO. Fabio Rosa scendeva da Cadine arrivando alla stazione delle autocorriere cinque minuti prima delle 8, giusto il tempo per raggiungere di corsa il sottopasso per sbucare il corso Buonarroti a due passi dalla sede dell’Istituto Tecnico Commerciale, quando una mattina: “Avevo dormito male ed ero stato più lento del solito. Qualche minuto di ritardo ed in cima alle scale trovai il preside Almerino Viola che con fare burbero mi chiese se “fossi stato in trance”, capì male e risposi "sì, sono venuto con il tram”. Si sentì preso in giro e mi fece passare un brutto momento in presidenza”.
Fabio Rosa aveva scelto l’Iti e l’indirizzo elettrotecnico per sfuggire al destino di famiglia: la banca, ma non ci riuscì. “Tra gli altri parenti, mio padre, Angelino, fu chiamato nel 1953 a salvare la Cassa Rurale di Cadine: chiusa dalla Banca d’Italia perché troppo piccola. Accettò. Divise in due l’ufficio della Famiglia Cooperativa e in una parte mia mamma gestiva la Cassa Rurale”.
Un segno del destino. “Anche peggio perché quando arrivavano le vacanze di Natale i miei compagni andavano a divertirsi, io invece ero costretto da mio padre a fare manualmente il calcolo degli interessi secondo la formula C.T. (capitale per tempo) con le staffe amburghesi”.
Arrivò il diploma.
“Si dopo gli esami di riparazione. Io, Passerotti e De Manincor fummo rimandati in Costruzioni Elettriche, ma andò bene e dopo pochi mesi iniziarono i miei dieci anni alle Officine Beltrami di via Fermi come progettista. Progettai, tra l’altro, gli impianti di riscaldamento ad aria calda delle chiese del Trentino Alto Adige”.
Il pericolo banca pareva scampato.
“Sembrava, perché nel 1975 mio padre morì improvvisamente. Tra quello che mi lasciò oltre alla Concessionaria Volvo che vendetti appena possibile, anche la Cassa Rurale: punto di riferimento degli allora 360 abitanti di Cadine che mi proposero di gestire”.
Lei?
"Mi trovai in vicolo cieco. Il paese ci sperava, mia mamma anche, intervenne mio zio Modesto Mazzucchi allora ispettore della Banca d’Italia, accettati facendo tutti gli studi necessari in Federazione e nel 1976 iniziò la mia avventura bancaria”.
Un ricordo?
“Ero spesso in città a “fare” clienti, un giorno al mio ritorno un mio impiegato mi disse che aveva fatto un buon affare. Aveva aperto un libretto di deposito ad un signore di Brescia, che per un periodo avrebbe lavorato in zona, a seguito di un versamento di un assegno circolare di 3 milioni. Quel libretto era un titolo al portatore e poteva essere monetizzato con una certa facilità. Non ci dormii tutta la notte. Chiamai la banca che lo aveva emesso per sentirmi dire che faceva parte di una serie rubata. A quel punto chiamai i carabinieri con la speranza che il soggetto tornasse in banca per incassare il libretto. Così fu. Arrivò all'ora di chiusura della mattina, ma ad attenderlo c’erano i carabinieri”.
L’avventura informatica?
“Inizia con l’incubo del periodo di calcolo degli interessi senza il quale non potevo chiudere la capitalizzazione. Si utilizzava una macchina elettro contabile Burox della Olivetti, si ruppe. Per rilassarmi scesi in città per andare alla stazione a comprare le sigarette. Il destino volle farmi incontrare Maurizio Passerotti compagno di classe alle Iti che tornava da Padova con un borsone nero che conteneva uno dei primi computer portatili: un Harwell con un hard disk da 20 mega che si era portato a casa per programmarlo. Abbiamo lavorato tutta la notte fino a trovare il programma giusto. Da quell’emergenza nacque prima la Tecnodata e poi l’Informatica Bancaria e l’informatizzazione di tutte le casse rurali trentine e perfino della Banca di Romania”.
Uno sviluppo che le cambiò la vita?
“No perché scelsi di rimanere alla Cassa Rurale di Cadine, ma la soddisfazione di essere stato l’inconsapevole autore di tutta quella rivoluzione, è ancora tanta”.