Fisioterapista e suora: due modi per aiutare chi sta soffrendo
La chiamata per suor Chiara Dal Rì è arrivata a 25 anni, dopo il liceo a Rovereto e l’università a Verona
TRENTO. «Mi chiede quando ho avuto un segnale della mia vocazione? Già quando ero piccola – racconta Suor Chiara - sono rimasta affascinata dalla leggenda del pettirosso che racconta come un passerotto vedendo il Signore crocifisso si avvicinò per aiutarlo. Decise di togliere le spine e nel farlo si macchiò del suo sangue. Ecco, io ho sempre pensato che sarei voluta essere quel passerotto».
Chiara Dal Rì nasce a Rovereto in una famiglia molto religiosa e che non si è mai tirata indietro nell’aiutare chi aveva bisogno. Chiara si diploma al Liceo Scientifico per frequentare poi la scuola di Fisioterapista a Verona.
A 25 anni nel 1993 diventa postulante.
Vuol dire che fai un anno di comunità, ma libera, senza particolari obblighi. Serve per capire la forza della vocazione perché sei in una terra di mezzo tra il laico ed il religioso. Per me è stato un anno che mi ha dato solo conferme, tant’è che sono seguiti due anni di noviziato e poi sono entrata nella congregazione delle Suore di Carità di Maria Bambina.
È figlia unica?
No, ho tre sorelle che però si sono sposate. Come loro ho vissuto anni nella fede della mia famiglia, nelle loro azioni di volontariato e di vicinanza con i bisognosi, ma per me è stato diverso. Da quel contesto mi è arrivato un messaggio, un richiamo che ho seguito nel tempo.
Nessuna invidia nei confronti delle sorelle?
No anche se non è stato facile rinunciare al desiderio di essere madre e spesso mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita con una famiglia: ma sono stati dei momenti e sono passati.
Come ha fatto a superarli?
Grazie a quell’opera di accompagnamento verso la vocazione che oggi in gran parte manca. I dubbi ci sono e ci saranno sempre, ma servono anche per fortificare la fede: la consacrazione è un punto d’arrivo che per raggiungerlo si deve essere aiutati.
Un ricordo dell’altruismo dei suoi genitori?
Si uno ed è anche molto particolare. Mio padre faceva volontariato in carcere, ma poi aiutava alcuni ex carcerati che quando avevano bisogno bussavano alla porta di casa. Ha sempre preteso che prima telefonassero e che poi lo aspettassero in strada perché in casa c’erano cinque donne e a ragione non si fidava. Una volta uno non rispettò la regola e salì le scale, suonava insistentemente e voleva entrare. Ci siamo rifiutate però ho avuto la netta sensazione che quell’ex carcerato fosse il Signore. Un segnale interiore che mi è costato molto non ascoltare.
Altri segnali?
Denver 1993 in occasione della Giornata Mondiale dei Giovani in un momento di preghiera individuale mi è arrivata la chiamata. Di quello che ho provato ne ho discusso con i miei accompagnatori e dai nostri colloqui sono arrivate solo conferme. Tant’è che il 1993 a 25 anni ho iniziato il mio anno di postulante.
Oggi è tempo di crisi di vocazioni: come lo spiega?
È d’obbligo una premessa. La chiamata è un mistero come lo è la sua mancanza: potrebbe essere un segnale del Signore in una realtà che è profondamente cambiata.
In che senso?
Il matrimonio ha perso il suo significato religioso in quanto sacramento. È diventato solo scenografia ed un tentativo da fare: se va bene, bene se no si divorzia. Verginità e sesso non sono più tabù e hanno perso tutti quei significati che avevano non molti anni fa. Poi manca quasi totalmente un percorso giovani di accompagnamento della fede. Gli oratori non hanno più un ruolo religioso, ma sono diventati luoghi di divertimento e poi, mancando preti e suore, ci si nota meno e molti giovani non hanno più contatti, al contrario della mia generazione che è cresciuta a fianco delle suore. Pensiamo alle scuole materne e agli ospedali che un tempo avevano nella suora una figura di riferimento che oggi manca praticamente ovunque. In molti casi nemmeno ci conoscono.
In che senso non vi conoscono?
Sia a Roma che a Milano mi hanno scambiata per una musulmana perché avevo il velo. Ho dovuto spiegare chi ero e cosa facevo ed in alcuni casi ne sono nati anche colloqui interessanti.
Possiamo dire che mancano le testimonianze cristiane?
Assolutamente si, ma manca anche chi le vuole ascoltare. Oggi ci si fa irretire dalle alternative alla fede, c’è uno spiccato individualismo e quei sentimenti di carità e di amore per il prossimo nei quali sono cresciuta, vanno scomparendo.
Lavora al Policlinico Maggiore di Milano come fisioterapista, riesce a dare una chiave di lettura religiosa al suo ruolo?
Non dimentichiamoci che Gesù toccava gli ammalati per dargli conforto ed è la stessa cosa che faccio io. Tante volte è solo un sollievo, ma quando un paziente paralizzato inizia a muove una mano o magari migliora fino a riprendere a camminare, beh in quei casi l’emozione è unica.
Durante la pandemia?
Non mi sono mai fermata, ero a Roma e seppur bardata non ho mai fatto mancare la mia presenza agli ammalati. Anticipo una possibile domanda. Non mi consideravo un eroina, ma semplicemente la portatrice di un messaggio del Signore che faceva il suo dovere.
A un ammalato grave che le chiede “perché proprio a me?” cosa risponde?
Non rispondo semplicemente perché non saprei cosa dire in un botta e risposta. Se invece è lo spunto per un dialogo di riflessione e di preghiera, sono pronta.
Non molto tempo fa persino le suore di Clausura si sono aperte una pagina Facebook, come vede il rapporto tra fede e social?
Se non ci si allontana dal dovere di ubbidienza non ci sono problemi, alla pari delle mail dipende dall’uso che se ne fa. Personalmente utilizzo i social senza problemi e sono stata tra le organizzatrici del Sinodo digitale e abbiamo anche casi di accompagnamento alla fede fatti utilizzando la rete. Del resto Papa Benedetto XVI aveva detto che il mondo web sarebbe diventato il sesto continente.
Ha un sogno?
Vorrei riuscire a capire come le leggi del fisico possano diventare spirituali. Capendolo si riuscirebbe a donare molto di più rispetto a quello che si fa. Poi anche migliorarmi nella mia professione perché dare sollievo agli ammalati è un messaggio del Signore.