TESTIMONI / 6

Olga Villa, medico coraggioso

Una storia semplice, di una donna minuta, riservata e tenace. Una donna che ci aiuta ancor oggi a focalizzare la centralità dell'attività di un medico che in quest'epoca del coronavirus ci appare centrale. Una storia che dedichiamo ai medici vittime in prima linea come la dottoressa Gaetana Trimarchi


Vincenzo Passerini

Piangiamo la morte della dottoressa Gaetana Trimarchi, primo medico ucciso dal Covid-19 in Trentino. Questa tragedia s’è portata via troppi medici in Italia. Ricordiamo, con riconoscenza, la dottoressa Trimarchi raccontando la storia di Olga Villa. Una storia semplice, grande, poco nota. La storia di una donna minuta, coraggiosa, riservata.

Olga Villa nasce a Torino nel 1916. Vuole fare medicina e ci riesce. A quel tempo era una scelta anticonformista per una donna. Nel 1938 c’erano solo 367 donne laureate in medicina in Italia. Oggi le donne medico sotto i 50 anni sono il 60% dei medici del nostro Paese. Per la tesi, Olga si avvale della guida di Rita Levi Montalcini, futuro premio Nobel e senatore a vita. Si laurea nel 1940.

Nasconde in casa un compagno di studi ebreo, Simone Tech, che deve sfuggire alla persecuzione delle leggi razziali fasciste. La sua inquietudine religiosa l’avvicina al movimento modernista di Ernesto Buonaiuti. E al protestantesimo. Il sentimento di giustizia e l’antifascismo la portano a entrare nella Resistenza. Prima come staffetta, poi come colonnello medico nella Brigata Garibaldi. Aiuta Rita Levi Montalcini, ebrea, a fuggire portandole carte di identità false stampate dai partigiani. Carte d’identità con alcune involontarie ingenuità, ricorderà la Montalcini, sulle quali però sorvolerà più di un controllore.

Dopo la guerra lavora alla Olivetti nell’assistenza dei lavoratori, poi per un breve periodo in Svizzera (sua madre era svizzera), quindi come medico condotto in una zona depressa delle valli valdostane. Ma il suo sogno è aiutare i più poveri. Riesce a realizzarlo a quasi 50 anni, grazie a una associazione missionaria protestante svizzera. Nel 1965 parte per la piccola Missione di Mwandi, in Zambia, sulle rive dello Zambesi. Zona poverissima dove imperversa la malaria che anche lei contrarrà. Lavora in un dispensario: due capanne, una per i malati, l’altra per lei, unico medico. L’aiutano un’infermiera scozzese e alcuni infermieri locali. Piano piano, passo dopo passo, quella donna minuta, fragile, tenace trasforma il dispensario in un ospedale con 120 letti, grazie all’aiuto di amici e gruppi torinesi. Quell’ospedale c’è ancora. Ma lei nel 1983 si rompe il femore e deve rientrare in Italia perché non ci sono medici che la curino. Non potrà più tornare nel suo ospedale. Ha 68 anni, è stremata, senza un soldo. Non ha contributi pensionistici. La Comunità di S. Egidio l’accoglie con amore a Roma. E lì vive fino alla morte, avvenuta nel 2002.