L'INTERVISTA

La lezione di Paolo Mieli «Saper cambiare opinione»

L’uso distorto della storia nel suo ultimo saggio “In guerra con il passato”


di Paolo Morando


TRENTO. La lezione di Paolo Mieli è tutto sommato semplice a dirsi. Ma metterla in pratica davvero, può invece rivelarsi un problema. Per due volte direttore del Corriere della Sera, già presidente di Rcs Libri e curatore di più trasmissioni per Rai Storia, Mieli a Trento ha presentato il suo ultimo saggio “In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia”. E sentite quale consiglio darebbe a chi volesse intraprendere la professione del giornalista o quella dello storico: «All’aspirante giornalista direi di fare anche lo storico e allo storico di fare anche il giornalista. Perché quando si giudicano fatti del presente o del passato, si dovrebbe avere sempre lo stesso atteggiamento: capire che le ragioni non stanno mai tutte dalla stessa parte e i torti da quella opposta, che la storia non è fatta di buoni e cattivi o di bianchi e neri, bensì di chiaroscuri. Anche nelle cause perse spesso c’è qualcosa di utile da scoprire, e in quelle vinte elementi di cui sarebbe importante che ci sbarazzassimo. E questo vale anche quando guardiamo alla cronaca. Prima di occuparmi di vicende del passato o del presente, chiedo sempre a me stesso che cosa ne penso. Solo dopo essermelo chiarito inizia l’analisi. E una volta compiuto il percorso, verifico se la penso come prima. Se è così, significa che ho ricercato solo elementi che confortavano il mio punto di vista iniziale. Ma un autentico percorso conoscitivo è invece quello che spinge a modificarlo, anche solo impercettibilmente. E questo vale sia per la ricerca storica che per la cronaca giornalistica».

“In guerra con il passato” è il seguito di “L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato”, uscito lo scorso anno, in cui già Mieli delineava l’attitudine qui esposta. Che è poi quella che, già ai tempi della direzione del Corriere della Sera, gli aveva fruttato l’accusa di “terzismo” e, soprattutto, quella ben più bruciante di “cerchiobottismo”: il collocarsi cioè in maniera più o meno equidistante rispetto agli schieramenti politici (posizione peraltro pressoché d’obbligo per un’istituzione come il Corriere) dando appunto - e qui l’affondo era sotto la cintura - un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma è un metodo che, applicato alla ricerca storica, può anche comportare la definizione tout-court di revisionista, con tutto ciò che ne consegue. E attenzione: è un’etichetta che Mieli non respinge, anzi. Ma a patto che ne sia ben chiaro (e condiviso) il significato: «Sono convinto che la revisione sia sempre buona cosa, purché venga svolta sulla base dei documenti e non per il solo gusto del paradosso, dire cioè che Nerone era buono e Augusto cattivo così, senza appigli: questa è cattiva revisione. Ma se una nuova documentazione offre una diversa prospettiva, allora è diverso». E questo per Mieli vale ancor più in un Paese come il nostro, «vittima di uno sfarinamento politico contro il quale, per i tempi che verranno, dovremo essere culturalmente più forti». Un Paese, soprattutto, storicamente malato di complottismo. «Lo si è sempre fatto, ma invocare congiure è uno strumento di semplificazione rispetto a vicende del passato difficilmente spiegabili - sostiene - quasi mai però queste tesi vengono sostenute dai documenti. Ad esempio, sull’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo sono stati pubblicati 25 mila libri che raccontano le cospirazioni più diverse, ma a distanza di ormai 102 anni non è stato trovato ancora nulla che le possa suffragare. E lo stesso vale per l’assassinio di Abramo Lincoln nel 1865. Per non parlare del delitto Kennedy a Dallas: le ipotesi dietrologiche sono migliaia, non così i dati».

Già, la dietrologia. Complice anche il fondamentale lavoro dei cosiddetti “pistaroli”, quei giornalisti che nella drammatica stagione degli anni ’70 non si accontentarono delle veline del Potere (a partire dalla strage di Piazza Fontana), è una pianta che in Italia è cresciuta a dismisura. Certo, non che il terreno ne ostacolasse il fiorire, anzi: i servizi deviati, il caso Moro, la P2, Ustica... Un Paese, il nostro, che - parafrasando la celebre definizione di Churchill sui Balcani - produceva allora più storia di quanta riuscisse a consumarne. Anche qui per Mieli il terreno andrebbe disboscato. E cita il recente lavoro “I nemici della Repubblica” di Vladimiro Satta, documentarista del Senato, a cui non a caso nei mesi scorsi dedicò due intere pagine sul Corriere della Sera: «Un’opera benemerita, che ha fatto vedere come molte congetture sulla storia d’Italia più recente non siano confortate dai fatti». Anche se, va detto, a Satta sono piovuti addosso inesorabili e aspri i commenti circa il, diciamo così, “minimalismo” del suo approccio: non ultimo quello di Aldo Giannuli, autorità in materia di lotta armata e stragismo (e di sapienti dietrologie sugli stessi).

Oggi, tra scie chimiche, vaccini killer e quant’altro, l’Italia è sempre più voluttuosamente inebriata dai vapori venefici del complottismo. Complice la rete, ovvio, strumento principale d’informazione per fette sempre più larghe dell’opinione pubblica. Mentre i giornali vedono costantemente calare il numero dei propri lettori. Tra fake, bufale online e post-verità, come può salvarsi la stampa nell’èra della disintermediazione? «È vero: i social, e più in generale il web, sono il campo preferito per la falsificazione e la manipolazione - afferma Mieli - e nessuno finora ha combattuto una guerra autentica per fare chiarezza: sui social si lascia correre, perché il mondo dei colti considera autentico ciò che è sulla carta e come se non esistesse quanto passa in rete. Ma stiamo commettendo lo stesso errore fatto a suo tempo con la televisione, che abbiamo ignorato pensando che riguardasse solo il mondo dei semplici. E troppo tardi ci siamo accorti che sottraeva progressivamente spazio alla carta stampata. Ora il processo si ripete, per giunta amplificato: perché il web è immediato, tutto è gratis, non serve più nemmeno lo sforzo di uscire di casa e andare all’edicola o in libreria... Non solo: ciò che vedi in tv poi sparisce, mentre sulla rete tutto resta».

Con l’effetto di un’esposizione ripetuta e prolungata che, a sua volta, produce una radicalizzazione delle posizioni. E del confronto. Non ci credete? Date un’occhiata in rete a proposito del referendum costituzionale di domenica prossima, poi ne riparliamo. Ma appunto: come ci si salva da tutto questo? Come potrà farlo una stampa sempre meno letta e sempre più socialmente screditata? Mieli la prende alla lontana: «Il teatro è stato per secoli la principale forma di spettacolo. Poi, tra fine ’800 e inizio ’900, ne sono arrivate altre che sembrava dovessero fagocitarlo. Ma si è salvato, attraverso la propria serietà e autorevolezza. E si è capito che il rapporto “fisico” tra pubblico e grandi attori e registi è insostituibile. Lo stesso vale per la stampa, che può salvarsi solo attraverso l’autorevolezza e l’affidabilità: dimostrando di rappresentare ancora il punto di approdo migliore per chi intende informarsi».

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