Addio a Bertolucci, l’ultimo grande maestro
Se n’è andato a 77 anni. Nella sua immensa carriera due Oscar vinti e una serie infinita di film che rimarranno nella storia
ROMA. Quando muore un grande artista ci si accorge di essere ogni volta impreparati, come se venisse a mancare anche a noi la voce, come se troppo silenzio e mediocrità improvvisamente ci stringessero d’assedio. Ma per Bernardo Bertolucci, morto all’alba di questo tardo novembre, 77 anni dopo la nascita il 16 marzo del 1941 nella sua bella Parma, per il grande regista che molti già chiamano «L’ultimo imperatore» e che come Bunuel si diceva «ateo per grazia di Dio», questa mattinata romana, a sorpresa piena di sole, arriva come una liberazione: dal lungo male che gli impediva di lavorare come avrebbe voluto, dagli impacci fisici che lo tenevano lontano dall’Olimpo dei poeti a cui apparteneva, dalla solitudine dopo che il padre Attilio e il fratello amatissimo Giuseppe lo avevano lasciato solo. Da oggi è quel gigante che cercava dentro di sé e che lascia il cinema e l’arte più poveri, lui eterno «fanciullino» sospeso tra elegia ed epica, passione per la scrittura e vocazione allo sguardo, romantico provinciale e viaggiatore internazionale. Bello, colto, figlio di poeta, seducente con la sua erre moscia alla francese e gli atteggiamenti anticonformisti, Bernardo sbarca a Roma giovanissimo, studia lettere alla Sapienza, scrive poesie (la sua raccolta «In cerca del mistero» vincerà il Premio Viareggio nel 1962) incontra Pier Paolo Pasolini, il vicino di casa già famoso che lo incoraggia e lo prende come assistente sul set del suo primo film, «Accattone» nel ’61. È un’autentica svolta: lui che con una cinepresa a passo ridotto ha già fatto le sue prime prove con i cortometraggi «La morte del maiale» e «la teleferica», scopre che il cinema può essere un’altra scrittura poetica a disposizione. Per il giovane uomo, è occasione di incontro con un circolo di intellettuali (da Siciliano a Moravia) che sarà anche il suo e con una delle migliori amiche di Pasolini, Adriana Asti, che diventerà sua musa e prima moglie. Con un soggetto di Pasolini sotto braccio debutterà nello stesso 1962 anche come regista con «La commare secca» e due anni dopo, con la Asti protagonista, firmerà il primo lavoro autenticamente suo, «Prima della rivoluzione», che sigla la nouvelle vague del cinema italiano insieme a «I pugni in tasca» del coetaneo Marco Bellocchio.
Sono appena 16 (più un episodio del collettivo «Amore e rabbia») i lungometraggi firmati da Bertolucci, ma scandiscono in modo tanto personale quanto memorabile, tre stagioni del nostro cinema. Con «Partner» (1968) si fisserà nella memoria quel tempo della rivolta ideologica e della libertà del costume che Bertolucci identifica come figlie della nouvelle vague e omaggerà sia in «Ultimo Tango a Parigi» (1972) che in «The Dreamers» (2003). Con il film per la televisione «Strategia del ragno» e il suo corrispettivo per il cinema «Il conformista» (entrambi del 1970, l’uno tratto da Borges, l’altro da Moravia) si aprirà la stagione della memoria italiana tra fascismo e lotta partigiana, che in «Novecento» (1976) diventa epica quasi omerica e tragedia verdiana di respiro internazionale, ma che risuona anche ne «La luna» (1979) nelle tematiche private e in «La tragedia di un uomo ridicolo» (1981) per la dimensione pubblica e «politica».
Si apre poi la grande pagina mondialista nel cinema di Bernardo, tra i nove Oscar (un record assoluto suggellato dalle due statuette personali e da quella per il miglior film) di «L’ultimo imperatore» (1987) e il viaggio iniziatico di due opere molto personali come «Il te nel deserto» (1990) e «Il piccolo Buddha» (1993). Infine un «ritorno a casa» che oscilla tra l’estetismo quasi autoironico di «Io ballo da sola» (1996), la forza contenuta di un piccolo gioiello come «L’assedio» (1998), l’intimismo tra Pascoli e Ammanniti di «Io e te» (2012).
Con questo ricordo adolescenziale ma modernissimo, una favola del «comingonage» racchiusa in spazi stretti, girato sotto casa eppure dominato con forza leonina dalla prima all’ultima inquadratura Bertolucci si congedava dal cinema sei anni fa.
Fino all’ultimo avrebbe accarezzato la seduzione di un terzo e conclusivo capitolo per «Novecento» e l’idea di un viaggio iniziatico sui luoghi e nelle musiche del compositore e lirico cinquecentesco Gesualdo Da Venosa. Sposato dal 1978 con Claire Peploe, amico di colleghi come Marco Bellocchio (festeggiavano insieme appena pochi anni fa sul palcoscenico della Festa di Roma), Dario Argento (lavorarono insieme al copione di «C’era una volta il west» per Sergio Leone), Mark Peploe (lo sceneggiatore di «Professione reporter»), Jeremy Thomas (il suo produttore e l’artefice del suo successo a Hollywood e a Pechino), cinefilo appassionato e pigmalione di un’intera generazione di innamorati della pellicola fino al feticismo, Bernardo Bertolucci viene fin troppo spesso citato per lo scandalo legato a «Ultimo Tango a Parigi», con il folgorante incontro tra il regista e il protagonista Marlon Brando, per i dissidi e le accuse di violenza psicologica subita da Maria Schneider (ma il regista si scusò più volte pur non avendo una responsabilità diretta), per il processo subito con la condanna e il rogo per il negativo del film. Che per fortuna, come tutti sanno, fu trafugato e salvato fino a ritornare nello splendore del restauro digitale (ad opera della Cineteca Nazionale e della Cineteca di Bologna) proprio la scorsa primavera. Bernardo ne accompagnava la prima al festival di Bari e lo raccontava con la tenerezza che si riserva a un figlio scapestrato quanto amato.
Ci resterà negli occhi col sorriso che aveva in quei giorni e appena pochi mesi fa quando al Salone del libro di Torino narrava dei suoi «sognatori» di questi «Dreamers» del ’68 che vivevano la loro gioventù tra utopie e immagini, alla corte del cinefilo parigino Henri Langlois e sulle strade infiammate del Maggio francese. Un po’ di Bernardo è sempre rimasto lì, giovane per sempre.