Il doppio lavoro? Se «fa bene» è lecito

Un’infermiera era stata condannata per truffa. In appello sentenza ribaltata: «Quell’occupazione l’ha guarita»



TRENTO. In primo grado era stata condannata a 8 mesi (pena sospesa) e al pagamento di una multa da 300 euro. Poi era intervenuta anche la Corte dei Conti. E c’è stata una nuova condanna, questa volta a risarcire (con 19.229,63 euro) l’Azienda sanitaria per il danno patrimoniale arrecato. Ora, però, arriva un’assoluzione a firma di Carmine Pagliuca, presidente della Corte d’Appello di Trento alla quale si era rivolta Marcello Paiar, l’avvocato difensore, contro la sentenza penale di primo grado. Assolta, viene scritto, perché il fatto non sussiste. La protagonista di tutto questo è un infermiera (che è stata licenziata ma il provvedimento è stato impugnato) che era stata accusata di lavorare in una struttura privata durante i periodi di malattia. Accusata quindi di truffa. Se in primo grado il giudice era arrivato alla condanna, in appello la situazione si è completamente capovolta. Il punto di partenza è sanitario, ossia la malattia della donna (una forma di depressione) e i relativi certificati. Che erano stati considerati falsi. Per i giudici di secondo grado, invece, sono «veridici e reali» e quindi «non integravano raggiro di sorta». Altro punto analizzato, quello sulla possibilità per la donna di svolgere un’altra attività. E qui i giudice della Corte d’appello spiegano come la «seconda attività» (svolta per un periodo limitato e in orario notturno) fosse possibile «perché essa riguardava lo svolgimento di un’attività che favoriva la guarigione della dipendente e non la ingravescenza della sua particolare malattia, richiedente primariamente l’allontanamento dai malati psichici». Malati con i quali svolgeva il suo lavoro per l’Azienda sanitaria. E sempre secondo i giudici dell’Appello sarebbe stata anche rispettata la norma che prevede che i lavoratori pubblici siano preventivamente autorizzati per svolgere altri lavori. E questa autorizzazione - secondo l’accusa - non ci sarebbe mai stata. Ma il difensore della donna - come sottolineato anche nella sentenza - aveva sollevato la questione del silenzio-assenso che ha il valore dell’assenso, appunto, passati trenta giorni dal momento di presentazione della domanda. «Il silenzio- assenso - viene spiegato nella sentenza - rendeva del tutto plausibile, dal punto di vista della donna, la ricerca di operatività esterne non incompatibili, quale certamente era, in sè, quella relativa al limitato periodo qui in contestazione, presso un’altro ente».

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