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Gios Bernardi, il decano dei medici che a 97 anni voleva tornare in corsia 

Una vita con il camice. «Volevo chiamare l’Azienda sanitaria per andare in prima linea contro il coronavirus». A fermarlo non sono state l’età o la paura: «Ho sol pensà che i m’averìa ridèst fòra» Sul futuro: «La globalizzazione va ripensata, così non si va avanti»


Alberto Folgheraiter


TRENTO. «Prima della libertà personale deve prevalere la solidarietà. E essere solidali oggi vuol dire starsene chiusi in casa per evitare che il contagio si propaghi. Benché sbertucciati dalle altre “grandi Nazioni”, per giorni abbandonati a noi stessi e indicati come gli untori di una pandemia che non risparmierà alcun popolo, credo che l’Italia stia dando l’esempio di un servizio sanitario diffuso e solidale che non ha uguali».

Così diceva Gios Bernardi, medico radiologo, decano dei medici trentini, 97 anni di età e 72 di iscrizione all’Ordine professionale, nei mesi scorsi quando stava per chiamare l’Azienda Sanitaria e mettersi a disposizione. Non l’ha fermato la paura del contagio né l’età a rischio. «Ho sol pensà che i m’averìa ridèst fòra», confessa con buona dose di ironia.

Costretto alla clausura, come tutti noi del resto, in quei giorni ha ripreso in mano i testi sulle epidemie, a cominciare dal classico Tucidide con la descrizione della peste di Atene del 430 a. C. («i medici non riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto ma, anzi, morivano più degli altri, in quanto più degli altri si avvicinavano ai malati..»).

La passione per la fotografia

Nonostante il pericolo e l’età, per sua indole lui sarebbe andato. A dare una mano. Del resto, questo splendido novantasettenne trentino, ha sempre ammirato la “gente che va”. Tanto da dare questo titolo a una mostra per immagini, che Gios Bernardi ha colto in anni ormai lontani. Una rassegna di scatti in bianco e nero proposta qualche mese fa a Taormina, in quel sud del Belpaese che è la sua passione da sempre. La Puglia soprattutto.

Del resto, un medico radiologo, costretto per mestiere a scrutare gli uomini fin nel profondo, attraverso le lastre radiografiche, non poteva che abbracciare la fotografia, soprattutto in bianco e nero. E raccontare, da par suo, una storia per immagini di “gente che va”, con la valigia di cartone, su treni di sola andata. Come un Henri Cartier-Bresson di casa nostra, il dottor Bernardi ha colto l’istantanea della gente comune, del proletariato del sud che partiva verso l’ignoto in cerca di riscatto. Racconti di migrazioni, storie di vita “di un’umanità costretta a lasciare le proprie radici per intraprendere viaggi di incertezza e malinconia, per affrontare una vita nuova in altre comunità spesso diffidenti”.

Assessore alla cultura

In fondo, pure da medico radiologo ha sempre cercato l’incontro con gli uomini. Il rapporto umano con il paziente, oltre la lastra radiografica. Per tale ragione, quando nel 1969 fu chiamato a candidare per il municipio dall’allora sindaco uscente Edo Benedetti (1922-2012) a Trento fu gratificato di una messe di voti di preferenza. «Avevo simpatie di sinistra, benché non sbandierate e fui coinvolto per caso in quella avventura politico-amministrativa».

Neofita dell’amministrazione cittadina, gli fu assegnato lo scranno di assessore alla cultura, all’istruzione e allo sport. Racconta: «Non era facile, allora, star dietro alle richieste di nuove strutture e reperire ad ogni autunno nuove aule perché dalla scuola media c’era stato un travaso nelle superiori, superiore alle previsioni».

Tra i suoi fiori all’occhiello, la creazione del primo teatro pubblico a Trento, con l’affitto del teatro Sociale e l’apertura di una sala di lettura, la prima in esterno, della biblioteca comunale di Trento. Del resto, Gios Bernardi ha sempre divorato i libri perché in famiglia – mezza cattolica, mezza socialista «ma soprattutto irredentista» - ha respirato fin da piccolo cultura e libertà.

I libri, che passione

Il bisnonno, Eugenio Bernardi, fabbro, falegname e scultore, nella seconda metà dell’Ottocento aprì una “libreria ecclesiastica” in via Verdi, dirimpetto alla Filarmonica. Era chiamata anche il “Caffè dei preti” poiché si vendevano stampe di chiara impronta cattolica e pure ceri per gli altari della vicina cattedrale. Uomo pio e molto religioso, Eugenio Bernardi morì di polmonite a 69 anni nel 1886. Il figlio, Eugenio Pietro, nato nel 1851, rinnovò la libreria e restò devotissimo a santa romana Chiesa. Elisa, una delle due sorelle, s’era fatta monaca tra le suore di Maria Bambina prendendo il nome di Eugenia. Eugenio Pietro, organista nella chiesa di S. Maria Maggiore, insegnante di musica ai bambini, il “sior Pierin” com’era chiamato, sposò (1881) Maria Zanolini, sorella di mons. Vigilio Zanolini, ed ebbe nove figli. Uno di questi, fratello del papà di Gios Bernardi, fu don Eugenio (1888-1957) del quale è in corso la causa di beatificazione. Un altro fratello, Gaetano (1884-1975), professore di fisica nei licei, fu un romanziere e scrittore prolifico. Pubblicò oltre cento romanzi di chiara impronta cattolica. Suo figlio, Marcello (1922-2001), divenuto pediatra di fama internazionale, docente di puericultura all’università di Pavia, scrisse numerose opere di carattere scientifico-divulgativo: “Il nuovo bambino”, “Gli imperfetti genitori”, “L’avventura di crescere”, ecc.

Insomma una famiglia di cultura, con solide diramazioni clericali. A volte, le eccessive volute d’incenso portano alla nausea e alla fuga verso altri lidi. Guido e Adriano, due avvocati, fratelli del “venerabile” don Eugenio, finirono parlamentari nelle file del PSIUP, il partito socialista di unità proletaria. I più mangiapreti che, al tempo, c’erano sul mercato politico.

Invece, Carlo (1892-1981), il papà di Gios Bernardi, fu un uomo molto religioso e molto pio. Professore di storia dell’arte e di disegno, pittore di buon pennello, non fu mai sodale col fascismo tanto che fu trasferito a Cagliari.

Avvocato mancato

Gios Bernardi, frequentato il liceo all’Arcivescovile, avrebbe voluto diventare avvocato come gli zii, ma il papà insistette perché abbracciasse gli studi di medicina. Probabilmente riteneva che gli sarebbe stato più utile un figlio medico che non un avvocato. Erano gli anni della guerra. Gios Bernardi si iscrisse a Milano, ma frequentò poco. Andava a sostenere gli esami e per spostarsi da Trento approfittava dei camion che rifornivano il mercato ortofrutticolo meneghino.

«Si viaggiava avvolti in una coperta, sul cassone sopra le mele. E quando potevo tornare a casa andavo al mercato per cercare un passaggio inverso».

Laureatosi nel 1947 era approdato, apprendista chirurgo, nella clinica privata del dottor Tommaso Merler, a Villa Igea, a Trento. «Lui era un ottimo chirurgo; la parte amministrativa era tenuta dalla moglie e la cognata guardava il guardaroba. Pochi posti letto, una quarantina».

Il dottor Merler teneva anche all’ordine e alla pulizia. «Talora, quando usciva dalla stanza di un paziente, dopo il “giro” di visite, sussurrava all’infermiera Caterina: guarda che c’è una macchia sulla parete, in basso, sotto la finestra. La Cate faceva intervenire immediatamente il papà del Carlo e del Bepi Šebesta che era il factotum della casa di cura».

In quella casa di cura poi divenuta il “centro traumatologico-ortopedico di Villa Igea”, oltre al proprietario dottor Merler c’erano soltanto altri due medici: il dottor Bernardi e il dottor Mario Marchesoni, ginecologo. Un impegno professionale intenso, senza orari e sempre reperibile («allora non c’erano i cellulari, e se andavo al cinema dovevo lasciar detto in casa di cura dove andavo e avvertire la cassiera del locale che mi sedevo al tal posto»).

Dalla chirurgia alla radiologia

Il dottor Bernardi seppe di avere una buona mano soltanto quando, lasciata chirurgia, fu sollecitato a specializzarsi in radiologia dal bresciano dottor Angelo Facchinelli che lavorava con lui a Villa Igea. L’austero dottor Merler si lasciò scappare, ma soltanto dopo che se n’era andato, che quel Bernardi sarebbe stato un eccellente chirurgo.

Passato alle dipendenze dell’ospedale Santa Chiara, assistente di radiologia, si trovò a operare gomito a gomito con il professor Alessio Pezcoller il quale, nonostante la fama di uomo scorbutico e arcigno (basta vederne il busto nel famedio cittadino), lo prese a ben volere. Ricambiato al punto che, quando fu istituito il premio Pezcoller (1986), il “Nobel” trentino dell’oncologia, il dottor Bernardi accettò di entrare nel consiglio di amministrazione. Vi è rimasto trent’anni, curando la parte scientifica, ed ha fatto il presidente per dieci anni. Fu lui a indirizzare il premio verso la ricerca oncologica molecolare.

Per diversi anni ha lavorato come responsabile della radiologia della “Cassa Malati”.

Presidente dell’Ordine

Tra i molti incarichi di una lunga vita di impegno professionale, Gios Bernardi è stato presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Trento. In quella veste ha organizzato, la prima volta in Italia, un incontro fra medici e omeopati. Si tenne a Levico Terme e da lì è scaturito il suo interesse per l’omeopatia, la quale, sottolinea «già allora si interessava, più della medicina ufficiale, del rapporto empatico medico-paziente».

Sposato con Franca Rigoni, ha tre figli: Anna, grafico (1951), Marco, regista (1955), Paola, editor (1962).

«A me non sarebbe spiaciuto disegnare. Ma mio papà, ogni volta che mi vedeva con la matita in mano, mi diceva: butta via quella roba che con l’arte non si mangia». Già i latini dicevano che «carmina non dant panem». Gli avevano regalato una vecchia macchina fotografica e il nostro si è appassionato alla fotografia. «Ho sempre rincorso la foto di strada con grande passione». Assieme al poeta levicense don Mario Bebber, con il quale ha avuto un rapporto di amicizia ma anche dialetticamente piuttosto vivace, ha poi dato alle stampe un libro fotografico dal titolo “Gente che va” (1967).

«Nessun rimpianto»

Rimpianti? «Ho avuto una vita intensa e interessante. Nessun rimpianto, anche perché per carattere non sono mai stato portato al passato. Guardo al presente».

E guardare al presente, per questo medico costretto dall’anagrafe all’inattività professionale, è ribadire che «il Coronavirus sarà sconfitto, spero presto, dal comportamento corretto della popolazione e dalla ricerca scientifica. Ma quando tornerà primavera, la stagione della semina sarà passata da un pezzo. La globalizzazione, che negli ultimi decenni aveva portato a una ubriacatura planetaria, dovrà essere ripensata. Così come noi del nord opulento del pianeta Terra dovremo ripensare al nostro vivere, così sopra le righe, così fuori dal mondo. In fondo, un virus invisibile all’occhio ci ha messi in ginocchio in un baleno. E credevamo di essere diventati invincibili».

 













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