«Più formazione per il lavoro che cambia» 

Il sociologo Marini: «Le imprese devono imparare a raccontarsi. Dopo Masterchef tutti vogliono fare i super-cuochi»


di Fabio Peterlongo


TRENTO. «Nel futuro digitale e robotizzato ci saranno lavori che non riusciamo nemmeno a immaginare. Sarà cruciale puntare tutto sulla formazione dei lavoratori di ogni età. Serve un welfare aziendale che metta al centro la singola persona. Le imprese devono ricominciare a raccontarsi, per mostrare come le industrie siano ben diverse da quelle alienanti di pochi decenni fa. Pensiamo a come è cambiata la percezione del mondo della ristorazione dopo che la tv ha mostrato il successo dei grandi cuochi: oggi tutti vogliono fare gli chef». Così il professor Daniele Marini, sociologo all’Università di Padova, che domani alle 17 a Palazzo Roccabruna a Trento presenterà il suo nuovo libro, «Fuori classe. Dal movimento operaio ai lavoratori imprenditivi della Quarta rivoluzione industriale» (Il Mulino). «Il libro raccoglie tre anni di ricerche con lavoratori dipendenti di tutta Italia. L’obiettivo è comprendere come sia cambiata la cultura del lavoro alla luce delle grandi trasformazioni degli ultimi anni».

Professore, ci può spiegare questo titolo, «Fuori classe»?

I lavoratori non si riconoscono più nel concetto di «classe», che sta ad indicare una realtà sociale organica e omogenea. Se chiediamo loro che cosa sia la giustizia sociale sul lavoro, i lavoratori rispondono che deve essere pagato di più chi è più bravo, ma vanno assicurate pari opportunità di partenza per tutti. Siamo di fronte a trasformazioni culturali che sfuggono al dibattito pubblico ancora concentrato sullo scontro tra le parti sociali.

In una società senza classi, il sindacato perde rilevanza?

Il sindacato mantiene ancora un ruolo importante, ma è centrale soprattutto per i lavoratori iscritti al sindacato stesso, il 25%. Ma è indifferente al sindacato oltre il 40% dei lavoratori. Tra i giovani il lavoro è un percorso di carriera, una progressione dinamica verso un migliore status sociale, dove non ci si accontenta della stabilità. Il sindacato invece difende il posto di lavoro, in una dimensione statica.

Su questo vi è una riflessione nei sindacati?

Nell’accordo tra Federmeccanica e Fim-Fiom-Uilm per la prima volta sono previsti la formazione del lavoratore e il welfare aziendale. Anche il sindacato si è reso conto che oggi la trattativa non è più solo salariale, ma va promossa la formazione personale che renda sempre più occupabile la persona. Dovremmo ispirarci al modello nord-europeo: dietro il conferimento per un anno di un assegno mensile, i lavoratori devono obbligatoriamente seguire dei corsi di formazione, a tutte le età. La vecchia cassa integrazione ormai non basta.

Che impatto ha la rivoluzione tecnologica (digitale, robot) sul lavoro?

Siamo di fronte a una rivoluzione di cui non conosciamo l'esito. Sicuramente ci saranno dei lavori che saranno bruciati, ma se ne creeranno di nuovi. Il tema è ancora una volta tornare a mettere al centro i percorsi formativi. Pensiamo a ciò che accaduto alle banche: dopo che l’home-banking ha ridotto la necessità di operatori alla cassa: gli stessi addetti ora si dedicano alla consulenza al cliente. Ci vuole meno ansia verso il futuro: ci saranno lavori che nemmeno riusciamo a immaginare.

Quali cambiamenti devono mettere in campo le imprese?

Le imprese devono riuscire a creare un nuovo racconto di se stesse: quando accompagno gli studenti nelle industrie restano sorpresi da quanto siano diverse dal luogo «alienante» tipico del modello fordista. Serve un nuovo immaginario del lavoro: le scuole alberghiere, snobbate fino a pochi anni fa, hanno avuto un boom di iscrizioni dopo che in tv è arrivato «MasterChef», che ha consentito un cambio radicale nella percezione di quel settore.













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