Quel 3 novembre 1918 quando Calamandrei “italianizzava” Trento
Il futuro giurista, come primo ufficiale del Regio Esercito, entrò in città chiudendo formalmente un pezzo di storia
di Paolo Piffer
Erano circa le tre e un quarto del pomeriggio del 3 novembre 1918, giusto novantasette anni fa, e Piero Calamandrei entrava a Trento, primo ufficiale italiano, a bordo di un sidecar. Il futuro giurista, uno dei padri nobili della Costituzione italiana che sarebbe arrivata dopo un secondo massacro mondiale, passava il ponte intitolato poi ai Cavalleggeri in omaggio alle avanguardie a cavallo del Regio Esercito dirette nel centro città, in piazza Duomo e in via Belenzani, tra due ali di folla. Il generale Pecori Giraldi diventava governatore militare e i profughi cominciavano a tornare dai campi di Boemia, Moravia, del Salisburghese, dell’Austria inferiore e superiore. A distanza di poco più di un’ora anche Trieste sarebbe diventata italiana. Quello stesso giorno, a villa Giusti, a Padova, veniva firmato l’armistizio tra l’Austria-Ungheria e l’Italia. La Prima guerra mondiale era finita. E un mondo si dissolveva. Un altro era in embrione. Tre imperi - germanico, austro-ungarico e ottomano - non c’erano più. Spazzati via dal conflitto. A quello zarista aveva pensato la rivoluzione d’Ottobre. Quella “inutile strage”, come l’aveva definita papa Benedetto XV, fu segnata da un bilancio di morte e crudeltà come forse mai prima d’allora. Dieci milioni di morti, per difetto e altrettanti profughi, se non di più, costretti a sofferenze inaudite, cacciati di casa, raminghi per l’Europa a seconda dell’avanzare dei fronti, alla mercé di eserciti e popolazioni locali non sempre benevoli. A volte, i numeri dicono molto di più di tante parole, anche solo quelli del fronte italo-austriaco.
Allo scoppio delle ostilità tra Italia e Austria, nel 1915, l’esercito del Regno aveva schierato, lungo i 600 chilometri di fronte, dall’Ortles al golfo di Trieste, 460 mila uomini, quello austro-ungarico, a fine giugno arrivava a 228 mila, meno della metà. Nel corso della guerra l’Italia arruolò 5 milioni e 900 mila uomini, i morti furono, anche se qualche dubbio rimane ancora oggi, 677 mila, di cui 100 mila deceduti in prigionia. L’Austria, che combatteva su più fronti, chiamò alle armi 9 milioni di soldati, di cui poco più dell’1% di origini trentina, triestina e del litorale adriatico. Alla fine, i caduti saranno 1 milione e 450 mila ai quali si dovrebbero aggiungere, ma i numeri sono inevitabilmente (vista la situazione) ballerini, 400 mila civili morti, soprattutto per fame.
A proposito dei trentini, nelle sue memorie Calamandrei annotava di quelle ore, mentre risaliva l’asta dell’Adige: «Ci guardavano in modo strano». E a questo proposito lo storico Vincenzo Calì commenta: «Già nei primi giorni successivi alla liberazione si delineò un contrasto fra l’entusiasmo degli irredentisti più accesi e della borghesia intellettuale in genere e l’atteggiamento prudente e guardingo della popolazione contadina, consapevole di trovarsi in un paese pieno di rovine in cui a un esercito se ne veniva a sostituire un altro, con le inevitabili conseguenze negative che ciò avrebbe comportato per la ripresa della vita normale».
Anche in questo caso i numeri aiutano. Nel 1914, allo scoppio del conflitto, i trentini, sudditi asburgici arruolati nelle fila dell’esercito di Francesco Giuseppe e mandati perlopiù a combattere in Galizia, furono tra i 55 e i 60 mila. Non tornarono più a casa in oltre 11 mila e 400 e circa 12mila vennero fatti prigionieri. Intorno ai 700, gli irredenti, passarono il confine per vestire, successivamente, la divisa italiana. Con l’anno seguente e l’entrata in guerra dell’Italia più di 70 mila civili vennero sfollati nelle regioni dell’Impero mentre altri 35 mila furono rastrellati e condotti nel Regno a seguito dell’avanzata italiana.
Rispetto all’anteguerra, al termine del conflitto meno della metà della superficie agraria risultava coltivata, 154 caseifici erano andati distrutti, così come 130 alberghi e 140 chiese oltre a un numero incalcolabile di edifici, strade, ponti e tratte ferroviarie. Nelle campagne si contarono 201 campi minati e milioni di proiettili sparsi.
Per il Trentino era l’inizio di una nuova storia. La ricostruzione sarebbe durata anni, così come la miseria.
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