Così Trento ha ucciso il suo fiume

Rettificando il corso dell'Adige abbiamo perso la nostra Senna


Luigino Mattei


Trento ha perduto il blasone di città fluviale 150 anni fa. Per colpa del celebrato ingegner Luigi Negrelli, primierotto. Uno che andava per la maggiore. Aveva perfino progettato il taglio dell'istmo di Suez, ma non aveva le sponde giuste. Lo fece un altro. Ma qui si muoveva a casa propria e le ferrovie imperiali gli commissionarono la linea del Brennero. Ora, è bene sempre fare i conti "contestualizzando". Il contesto di allora imponeva di disegnare le linee ferroviarie il più possibile in linea retta. E se la linea retta toppava contro un fiume, la regola era non di girarci intorno, ma di "rettificare" il fiume. Mistero delle parole: rettificare il fiume poteva suonare come metterlo sulla retta via. Eh già, che ci faceva quel matto di Adige di scrollarsi di qua e di là nella valle. Piuttosto che curvare di un po' la ferrovia, si è preferito raddrizzare il fiume.  Tutto per non fare qualche ponte. Quindi mettendo sottosopra i contadini che anche allora coltivavano le uve per il marzemino, si è preso l'Adige e lo si è incanalato. Anche a Trento: alla Torre Verde, dove c'era ancora il porto fluviale utilizzato dagli zattieri per portare fusti d'albero ai cantieri di Venezia, lo si è tirato per il collo portandolo al di là della ferrovia, al di là quindi di piazza Dante col suo monumento e al di là della basilica di San Lorenzo, un gioiello che fino allora riempiva gli occhi perché galleggiava su un isolotto in mezzo al fiume.  E giù giù rettificando per la valle, Negrelli tagliò tutte le anse che gli impedivano di tirar dritto come un treno (la parola è quella giusta, purtroppo). Così nelle campagne del Casteller, e in quelle dei Murazzi: il viaggio in treno tra Trento e Rovereto consente di scorgere qua e là il fiume tirato in disparte. Ma a Trento fu come cancellato. Il secondo fiume d'Italia. Che belle cartoline avrebbe generato. Come la Senna a Parigi, come il Tamigi a Londra. Come il Danubio a Budapest.  Fosse solo questione di estetica. Il fatto è che dopo centocinquant'anni l'Italia di allora, da Verona a Rovigo si maledice ancor oggi alla decisione delle imperial regie ferrovie austriache. Ogni volta che l'Adige va fuori e allaga la Padania veneta. La velocità presa dalle acque e la distruzione delle marcite nelle quali il fiume esondava con benefiche alluvioni presto assorbite dal terreno agricolo (col respiro che ci hanno insegnato ad ammirare a proposito del fiume Nilo, ma non del casalingo Adige) hanno avuto la risposta che non era così arduo aspettarsi.  Non è bastata la galleria Adige-Garda, tranne che per qualche emergenza, a scolmare quel di troppo che di tanto in tanto la natura incarica i fiumi di portare al mare. Non è che abbiamo imparato niente. Il disastro che si è abbattuto a Genova e, la settimana scorsa, sulle Cinque Terre nasce anche dallo stesso errore compiuto a voler insegnare a un fiume dove doveva passare. La pretesa di insegnare al fiume la strada giusta è costata carissima. Il fiume è tornato impetuosamente a riprendersi la strada vecchia trascinando via tutte le ville che intanto avevano riempito il vecchio alveo.  Ma all'epoca, è giusto convenire, il "taglio del fiume oltre la Centa" non trovò resistenze né di ambientalisti né di promoter del turismo urbano: al contrario, venuta meno l'economicità del traffico fluviale, il fiume da fonte di reddito era visto solo come pericolo. Non mancò di farsi sentire la pressione dei commercianti della zona che all'allontanamento del fiume si aspettavano non solo la cessazione delle infiltrazioni d'acqua negli scantinati delle loro botteghe, ma anche l'incremento di valore dei loro immobili anche per effetto della speculazione che si sarebbe appropriata degli spazi resi liberi lungo le attuali via Torre Verde e via Torre Vanga.  Non è che gli amministratori dell'epoca si siano impegnati a dare almeno una dignità architettonica ai ponti che uniscono le due sponde. Quello di San Lorenzo ha avuto negli anni un paio di rifacimenti, senza migliorarne l'aspetto. Quello di San Giorgio, che si aggiunto più tardi, è il trionfo del piatto. Proiettandosi verso un rione di poche case qual è Piedicastello, il ponte non è che faccia parte della visione quotidiana della città. Ci si aspetta una passerella per servire l'istituto scolastico che il Comune ha in animo di trasferire all'ex Italcementi. Chissà che, trattandosi un passaggio pedonale, non si premino nel bando le proposte che mirino a fare qualcosa come Ponte Vecchio a Firenze. Con le pizzerie invece che gli orafi. Se non c'erano i presupposti per fare di Trento una città fluviale come Londra, Parigi o Praga, almeno da Firenze si potrebbe copiare l'idea d'un ponte-bottega. Stempererebbe tra l'altro la nevrosi che aleggerà probabilmente sul nuovo borgo Michelin, con la sua malinconica ideologia da allevamento industriale di polli. I due ponti attuali non è che possano aspirare ad essere posti da vivere: quello di San Giorgio serve per entrare in autostrada dal casello Trento centro, dal quale non si esce nemmeno più. Un accenno di distesa gaiezza per ora è assicurato sulla sponda destra da un paio di ristoranti a Piedicastello e uno alla Vela.  Impegno estetico zero, funzionalità pura. Se all'epoca ci fosse stato Dellai, li vedresti i ponti che avrebbe fatto: per averne un'idea basta percorrere l'elegante circonvallazione Piedicastello-Rocchetta: un campionario di ponti. Povero Adige. Due ponti di passaggio, niente vita. Il torrente Fersina su un tratto molto più breve ne ha ben quattro di ponti. Ed è rigoglioso di gente, di botteghe, un parco frequentato e una gelateria che starebbe bene lungo la Senna. Ma il Fersina è troppo poco per ambire a quella città fluviale che Trento avrebbe potuto diventare disponendo le aree attraversate dall'Adige con una diversa strategia urbanistica.













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